Biennio rosso |
Martedì 27 Novembre 2012 01:51 | ||||||||||
Il Biennio rosso è la locuzione con cui alcuni storici indicano il periodo della storia italiana immediatamente successivo alla prima guerra mondiale e protrattosi fino agli inizi del 1921, in cui si verificarono, soprattutto nell'Italia centro-settentrionale, mobilitazioni contadine, tumulti annonari, manifestazioni operaie, occupazioni di terreni e fabbriche con, in alcuni casi, tentativi di autogestione. Le agitazioni si estesero anche alle zone rurali e furono spesso accompagnate da scioperi, picchetti e scontri. Una parte della storiografia estende la locuzione ad altri paesi europei, interessati, nello stesso periodo, da analoghi moti. Il biennio rosso in EuropaLa sconfitta nella Prima guerra mondiale aveva condotto al crollo delle monarchie in Germania, nell'Impero asburgico, in Turchia e in Bulgaria. In questi paesi, ed inoltre in Italia (che pure era uscita vincitrice dalla guerra), lo sforzo bellico aveva fortemente acuito le tensioni sociali. Sentimenti di stanchezza, di ostilità alla guerra, e propositi di rivolta erano cresciuti nelle masse popolari. Nelle industrie di armamenti di alcune delle nazioni coinvolte nel conflitto erano sorti movimenti di base di lavoratori (movimento degli shop stewards in Gran Bretagna, movimento dei Betriebsobleute in Germania) che si opponevano alla guerra su posizioni politiche radicali. L'opposizione organizzata alla guerra era cresciuta anche fra i lavoratori e i marinai delle basi navali più importanti, come quella di Kiel. Secondo l'espressione di Eric J. Hobsbawm, "dal 1917 tutta l'Europa era diventata una polveriera sociale pronta a esplodere". Nel gennaio 1918 tutta l'Europa centrale fu scossa da un'ondata di scioperi e di manifestazioni contro la guerra, che coinvolsero operai, contadini, marinai e soldati. Questa irrequietezza sociale proseguì dopo la fine delle ostilità e fu alimentata dalla pesante crisi finanziaria che si abbatté sulle nazioni europee che avevano partecipato al conflitto, le quali furono colpite da una forte inflazione e dovettero affrontare i problemi derivanti dalla ricostruzione, dall'aumento del debito pubblico e dalla difficoltà della riconversione da un'economia di guerra all'economia di pace. Mentre la crisi economica pesava sulle masse popolari, determinati settori dell'imprenditoria europea si erano invece favolosamente arricchiti grazie ai sovrapprofitti di guerra. Giocava inoltre un ruolo l'esempio della Rivoluzione d'ottobre che aveva condotto al rovesciamento del capitalismo in Russia e all'instaurazione del primo Stato socialista: si diffuse nelle masse, specialmente in Italia, l'aspirazione a "fare come in Russia" . Tra il 1919 e il 1920, l'Europa fu toccata da ondate di scioperi ed agitazioni di operai che rivendicavano l'aumento salariale e la giornata lavorativa di otto ore. Le lotte non si limitarono solo a rivendicazioni sindacali: in molti casi il potere nelle fabbriche venne sovvertito da consigli operai, nati spontaneamente sul modello dei soviet russi. Le lotte operaie ebbero diversi sviluppi in ogni stato europeo. Nel luglio-agosto 1920, a Mosca, il II Congresso dell'Internazionale comunista (Comintern) elaborò un documento che stabilì in 21 punti le condizioni per aderire all'Internazionale stessa: i partiti aderenti dovevano obbligarsi a modellare la propria struttura su quella del Partito comunista russo, a seguire le direttive tattiche stabilite dal Comintern e a scindersi dai socialisti riformisti. Lenin promosse la costituzione di partiti comunisti in tutto il mondo, che avrebbero dovuto prendere le distanze dai socialdemocratici e porre le basi per realizzare una rivoluzione di stampo sovietico.
Béla Kun parla alla folla (1919) AustriaIn Austria il partito socialdemocratico fu il più votato alle elezioni per l'Assemblea costituente nel 1919, vedendo eletti 69 suoi deputati contro 63 cristiano-sociali e 26 nazionalisti. Benché fosse generalmente più di sinistra rispetto alla socialdemocrazia tedesca, anche quella austriaca intendeva mantenersi entro i limiti della democrazia parlamentare, e contribuì pertanto a far fallire l'insurrezione tentata a Vienna dai comunisti. FranciaIn Francia l'inflazione e la caduta dei salari reali produssero un'ondata di scioperi e di agitazioni che ebbe il suo punto più alto nel maggio 1920; tuttavia le elezioni politiche del novembre 1919 videro la vittoria dei partiti borghesi (accentuata dalla legge elettorale maggioritaria). La maggioranza del Partito socialista aderì al Comintern, segnando così la nascita del Partito comunista francese. GermaniaIn Germania i Consigli degli operai e dei soldati erano stati protagonisti della rivoluzione che, il 9 novembre 1918, aveva condotto all'abdicazione dell'imperatore Guglielmo II e all'instaurazione della Repubblica, con a capo del governo il socialdemocratico Ebert. Il primo congresso nazionale dei Consigli degli operai e dei soldati si riunì a Berlino fra il 16 e il 21 dicembre 1918: dei suoi 489 delegati, circa 300 appartenevano alla SPD e i rimanenti facevano parte dei vari gruppi della sinistra rivoluzionaria. Fra il 4 e il 6 gennaio 1919 questi gruppi, fra cui la Lega Spartachista di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, diressero a Berlino l'insurrezione che si proponeva di abbattere il governo socialdemocratico: vennero occupate le sedi dei principali giornali e si combatté in strada. In molte città della Germania abbero luogo scioperi di solidarietà: fu proclamata una Repubblica dei consigli a Brema, si ebbero tentativi rivoluzionari nella Ruhr e ad Essen, dove il consiglio operaio deliberò la socializzazione dell'industria del carbone. Ma la rivoluzione venne efficacemente repressa dal socialdemocratico Gustav Noske con l'ausilio dell'esercito e dei corpi franchi; gli stessi Luxemburg e Liebknecht vennero arrestati e assassinati il 15 gennaio. In Baviera venne proclamata, il 7 aprile 1919, la Repubblica dei consigli; anch'essa fu schiacciata dopo meno di un mese. Il 13 gennaio 1920 si ebbe a Berlino una nuova insurrezione, repressa nel sangue con 42 morti. Gran BretagnaIn Gran Bretagna le elezioni politiche del dicembre 1918 furono vinte dai conservatori. Il movimento degli shop stewards, nato durante la guerra nelle industrie belliche, non sopravvisse alla riconversione di queste ultime; da tale movimento nacque, nel luglio 1920, il Partito Comunista Britannico. I lavoratori delle miniere, delle ferrovie e dei trasporti diedero vita, nel biennio, a notevoli lotte operaie che ebbero carattere prevalentemente sindacale più che politico; tuttavia, nell'estate del 1920, si ebbe un importante sciopero politico nel porto di Londra, dove gli scaricatori si rifiutarono di caricare sulle navi materiale militare che era destinato a combattere l'Armata Rossa. Inoltre i sindacati contribuirono, minacciando uno sciopero generale, a sventare i progetti governativi di una guerra contro la Russia. UngheriaIn Ungheria, il 21 marzo 1919, dopo due mesi di rivolte operaie, fu proclamata la Repubblica Ungherese dei Soviet, sotto la guida di Béla Kun. La repubblica resse pochi mesi; ad agosto essa fu abbattuta e in novembre l'ammiraglio Horthy instaurò la sua dittatura. Il biennio rosso in Italia
Giacinto Menotti Serrati con Lev Trotsky Alla fine della Prima guerra mondiale (novembre 1918), l'economia italiana si trovava in una situazione di grave crisi, iniziata già durante la guerra e che si protrasse a lungo; infatti, nel biennio 1917-1918 il reddito nazionale netto era sceso drasticamente, e rimase, fino a tutto il 1923, ben al di sotto del livello d'anteguerra, mentre il tenore di vita delle classi popolari era, durante la guerra, nettamente peggiorato; secondo una statistica, fatto pari a 100 il livello medio dei salari reali nel 1913, questo indice era sceso a 64,6 nel 1918. Nell'immediato dopoguerra si verificarono inoltre un ingentissimo aumento del debito pubblico, un forte aggravio del deficit della bilancia dei pagamenti, il crollo del valore della lira e un processo inflattivo che portò con sé la repentina diminuzione dei salari reali. Il peggioramento delle condizioni di vita delle classi popolari (già duramente provate dalla guerra) fu la causa immediata dell'ondata di scioperi e di agitazioni, iniziata nella primavera del 1919, alla quale non rimase estranea nessuna categoria di lavoratori, sia nelle città sia nelle campagne, compresi i pubblici dipendenti, cosicché l'anno 1919 totalizzò complessivamente in Italia oltre 1.800 scioperi economici e più di 1.500.000 scioperanti. Mentre gli operai scioperavano prevalentemente per ottenere aumenti salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro (la riduzione dell'orario di lavoro a otto ore giornaliere fu ottenuta, nelle grandi industrie, nell'aprile 1919), gli scioperi nelle campagne, che coinvolsero nel 1919 più di 500.000 lavoratori, ebbero obiettivi diversi a seconda delle categorie: i sindacati dei braccianti lottavano per ottenere il monopolio del collocamento e l'imponibile di manodopera, mentre mezzadri e salariati fissi cercarono di ottenere dalla proprietà terriera nuovi patti a loro più favorevoli; contemporaneamente si verificarono, soprattutto nel Lazio e nel meridione, importanti lotte per l'occupazione delle terre incolte da parte di braccianti agricoli, coloni e contadini piccoli proprietari. Si ebbe un'ondata di moti contro il carovita (in Toscana ricordati come "Bocci-Bocci") che attraversò tutta la penisola tra la primavera e l'estate del 1919, cui il governo non riuscì a mettere un freno. Il Partito socialista italiano tenne il suo sedicesimo congresso nazionale a Bologna nei primi giorni di ottobre del 1919; in esso si fronteggiarono tre mozioni:
Sia Serrati che Bordiga proponevano l'adesione del partito alla Terza Internazionale; tuttavia, mentre i massimalisti di Serrati ritenevano che la rivoluzione fosse comunque inevitabile e l'attendevano passivamente, l'estrema sinistra di Bordiga, in polemica con i massimalisti, e in modo più coerente con l'esempio sovietico, riteneva doveroso impegnarsi attivamente per la riuscita della rivoluzione. Delle tre mozioni, fu quella massimalista elezionista di Serrati ad ottenere la maggioranza assoluta dei voti e ad esprimere la direzione del partito; la minoritaria corrente riformista (i cui esponenti principali erano Filippo Turati e Claudio Treves), che non credeva nella possibilità di uno sbocco rivoluzionario della crisi, fece confluire i suoi voti sulla mozione di Lazzari. Tuttavia nessuna delle correnti del Partito socialista, pur richiamandosi più o meno genericamente all'esigenza di superare il capitalismo e instaurare il socialismo, seppe proporre alcun obiettivo concreto e immediato alle lotte in cui erano frattanto impegnati il movimento operaio e quello contadino, i quali rimasero pertanto sostanzialmente privi, durante tutto il Biennio rosso, di un'efficace direzione politica. Le elezioni politiche del 16 novembre 1919, che per la prima volta utilizzavano il sistema proporzionale, videro una forte affermazione del Partito socialista italiano che riscosse il 32,4% dei voti, mentre il Partito popolare ebbe il 20,6%; la maggioranza dei voti andò così ai due partiti di massa, mentre le varie liste liberali e liberaldemocratiche (che fino ad allora avevano dominato il parlamento italiano post-unitario) per la prima volta persero la maggioranza dei seggi alla Camera. I vari governi liberali che si succedettero fra il novembre 1919 e l'ottobre 1922 poterono reggersi solo grazie all'appoggio esterno del Partito Popolare. Gli scioperi del 1920 e la Rivolta dei Bersaglieri
Napoli: il corteo del 1º maggio 1920 è disperso dalle guardie regie
L'estensione della rivolta dei Bersaglieri da Ancona ad altre città italiane (26-29 giugno 1920) Il movimento rivendicativo che aveva caratterizzato il 1919 si intensificò ulteriormente nel 1920, quando vi furono in Italia più di 2.000 scioperi e più di 2.300.000 scioperanti; nello stesso anno, i lavoratori organizzati in sindacati ammontavano a più di 3.500.000, di cui 2.150.000 nella sola C.G.d.L.. In questo stesso anno il padronato industriale e agrario si organizzò a livello nazionale: il 7 marzo 1920 venne fondata a Milano la Confederazione generale dell'industria e il 18 agosto nacque la Confederazione generale dell'agricoltura. Nel marzo 1920 scoppiarono importanti scioperi, in particolare, presso la Fiat di Torino, il cosiddetto sciopero delle lancette, così detto per l'episodio che diede origine alla vertenza. Gli operai di Torino della FIAT avevano chiesto alla direzione dello stabilimento, in concomitanza con l'entrata in vigore dell'ora legale, di posticipare di un'ora l'ingresso al lavoro. Dopo il diniego da parte della proprietà, la Commissione interna dell'officina Industrie Metallurgiche aveva proceduto, di sua iniziativa, a spostare di un'ora indietro l'orologio della fabbrica. In seguito a ciò, la direzione licenziò tre membri della Commissione interna; gli operai risposero con uno sciopero di solidarietà che, il 29 marzo 1920, coinvolse tutte le officine metallurgiche di Torino ed al quale gli industriali risposero a loro volta con una serrata, pretendendo, come condizione per riprendere il lavoro negli stabilimenti, che venissero sciolti i Consigli di fabbrica[28]. Lo sciopero generale, indetto alla metà di aprile, coinvolse circa 120.000 lavoratori di Torino e provincia. Tuttavia, tanto la direzione nazionale della CGdL quanto quella del Partito socialista si rifiutarono di dare il loro appoggio al movimento torinese, né vollero estendere la vertenza al resto d'Italia mediante la proclamazione di uno sciopero generale. Inoltre in quei giorni il governo inviò a presidiare la città una truppa di circa 50.000 militari. Isolati a livello nazionale e sotto la minaccia delle armi, gli operai di Torino dovettero capitolare: la vertenza si chiuse con un concordato che prevedeva un forte ridimensionamento dei Consigli di fabbrica. Lo sciopero terminò così il 24 aprile senza che i lavoratori coinvolti avessero visto riconosciute le proprie richieste, fra cui il riconoscimento, da parte degli industriali, dei Consigli di fabbrica. Antonio Gramsci, dalla rivista L'Ordine Nuovo, ammise la momentanea sconfitta:
A Fiume, il 20 aprile gli autonomisti di Riccardo Zanella, ostili ai legionari dannunziani, con l'appoggio dei socialisti, proclamarono lo sciopero generale. Il 1º maggio, in occasione della festa dei lavoratori furono indetti cortei nelle principali città che in alcuni casi furono dispersi dalla polizia come a Torino e a Napoli. Uno nuovo sciopero indetto contro l'aumento del prezzo del pane indebolì il governo Nitti, che si dimise il 9 giugno 1920 per lasciare il posto all'ottantenne Giovanni Giolitti. Manifestazioni e cortei proseguirono ininterrotti per lungo tempo con vittime sia tra i militari sia tra i manifestanti. Uno degli eventi più significativi di tutto il biennio rosso fu la rivolta dei Bersaglieri che scoppiò ad Ancona nel giugno del 1920. La scintilla che provocò la rivolta fu l'ammutinamento dei bersaglieri di una caserma cittadina che non volevano partire per l'Albania, dove era in corso una occupazione militare decisa dal governo Giolitti. Al contrario di altre manifestazioni del biennio, la Rivolta dei Bersaglieri fu una vera ribellione armata e coinvolse truppe di varie forze che solidarizzarono con i ribelli; da Ancona la rivolta divampò in tutte le Marche, in Romagna, in Umbria, in Lombardia e a Roma. Fu indetto uno sciopero da parte del sindacato dei ferrovieri per impedire che ad Ancona arrivassero le guardie regie e infine il moto fu sedato solo grazie all'intervento della marina militare, intervenuta per bombardare la città. Le occupazioni delle fabbriche
1920: fabbriche presidiate dalle Guardie rosse L'inizio della vertenzaIl 18 giugno 1920 la FIOM presentò alla Federazione degli industriali meccanici e metallurgici un memorandum di richieste, che fu seguito da analoghi memoriali da parte degli altri sindacati operai. Tutti i memoriali concordavano nella richiesta di significativi incrementi salariali volti a compensare l'aumentato costo della vita. L'atteggiamento degli industriali di fronte a tali richieste fu di assoluta e totale chiusura; a detta degli imprenditori, il costo derivante dagli aumenti salariali sarebbe stato insostenibile per un settore produttivo che versava già in stato di crisi. A ciò i sindacalisti della F.I.O.M. risposero ricordando gli ingentissimi profitti accumulati durante la guerra dalle industrie meccaniche e metallurgiche grazie alle commesse belliche. Il 13 agosto 1920 gli industriali ruppero le trattative.
La F.I.O.M. deliberò a questo punto di procedere all'ostruzionismo: evitando ogni forma di sabotaggio, gli operai avrebbero dovuto ridurre la produzione, rallentando l'attività, astenendosi dal cottimo e applicando minuziosamente le norme sulla sicurezza del lavoro. Qualora gli imprenditori avessero risposto con la serrata, gli operai avrebbero dovuto occupare gli stabilimenti. Le direttive della F.I.O.M. vennero eseguite con zelo dagli operai e condussero ad un calo molto significativo della produzione. Il 30 agosto si ebbe la prima contromossa da parte padronale: le Officine Romeo & C. di Milano iniziarono la serrata, benché il Prefetto del capoluogo lombardo avesse espressamente chiesto all'ing. Nicola Romeo di non assumere tale iniziativa. Lo stesso giorno la sezione milanese della F.I.O.M. deliberò l'occupazione delle officine metallurgiche della città. Poche ore dopo anche gli opifici della Isotta Fraschini vennero occupati e i dirigenti sequestrati negli uffici. Tra loro anche i fondatori e proprietari Cesare Isotta e Vincenzo Fraschini. Il 31 agosto la Confindustria ordinò la serrata a livello nazionale. La stessa deliberazione era stata assunta, il giorno precedente, dagli industriali metallurgici inglesi. Le fabbriche occupateOvunque, la serrata fu puntualmente seguita dall'occupazione degli stabilimenti da parte degli operai. Fra l'1 e il 4 settembre 1920 quasi tutte le fabbriche metallurgiche in Italia furono occupate. Gli operai coinvolti furono più di 400.000 e salirono poi a circa 500.000 quando l'occupazione si estese ad alcuni stabilimenti non metallurgici. L'occupazione delle fabbriche avvenne (e proseguì) quasi ovunque pacificamente, anche grazie alla decisione, presa dal governo Giolitti, di non tentare azioni di forza; le forze dell'ordine si limitarono a sorvegliare dall'esterno gli stabilimenti senza intervenire. Giolitti intendeva infatti evitare un conflitto armato, che sarebbe potuto sfociare in una guerra civile, e confidava nella possibilità di mantenere il confronto tra operai e imprenditori su di un piano puramente sindacale, in cui il governo avrebbe potuto fungere da mediatore. Su questo punto Giolitti si trovò d'accordo con la dirigenza nazionale della G.G.d.L., che era di orientamento riformista. Nei primi giorni di occupazione, tuttavia, un fatto di sangue avvenne a Genova; il 2 settembre le guardie regie che presidiavano un cantiere navale spararono contro gli operai che cercavano di occuparlo; il calderaio trentacinquenne Domenico Martelli rimase ucciso e altri due operai furono gravemente feriti. Alcune guardie regie fra quelle che avevano aperto il fuoco furono arrestate, ma vennero scarcerate il giorno successivo. Nelle fabbriche occupate la produzione continuò, anche se in misura ridotta a causa delle difficoltà di approvvigionamento e dell'assenza del personale tecnico e impiegatizio. Torino fu la città in cui l'organizzazione operaia (basata sul sistema dei Consigli di fabbrica) si rivelò più efficiente; furono creati presso la Camera del Lavoro vari organismi (comitati) per coordinare a livello cittadino la produzione, gli scambi, i rifornimenti[57], e funzionò anche un comitato militare. In almeno un caso (l'officina Fiat Centro) la produzione raggiunse ragguardevoli livelli, toccando il 70 per cento dell'output di prima della vertenza. A Torino e a Milano, gli operai, tramite le locali Camere del lavoro, tentarono di assicurarsi i necessari mezzi di sostentamento mediante la vendita dei prodotti delle fabbriche occupate; ma i risultati furono trascurabili. Più efficaci a questo scopo furono l'aiuto da parte delle Cooperative (sotto forma di finanziamenti in denaro e elargizione di generi alimentari) e la solidarietà degli altri lavoratori, che si manifestò mediante collette, allestimento di "cucine comuniste" per gli occupanti e altre iniziative di sostegno. Durante l'occupazione corsero, sull'armamento operaio, notizie incontrollate che destarono preoccupazione anche in ambito governativo; tuttavia sembra che, generalmente, la forza e la capacità militare degli occupanti non siano andate oltre la mera difesa degli stabilimenti occupati, tranne forse che a Torino, dove gli operai erano, anche militarmente, meglio organizzati che altrove. All'interno delle officine della Società Piemontese Automobili si iniziarono anche a produrre bombe a mano. Gli operai organizzarono comunque servizi armati di vigilanza, disposti a scendere allo scontro anche con l'esercito, che assunsero il nome di Guardie Rosse. A favore degli scioperanti intervennero spesso i sindacati dei ferrovieri che organizzarono picchetti armati presso i nodi ferroviari per impedire l'intervento delle guardie regie. Inoltre i sindacati dei ferrovieri collaborarono spesso con gli occupanti, assicurando loro rifornimenti di materie prime e di combustibili. La conclusione della vertenzaBenché nato come vertenza sindacale, il movimento di occupazione delle fabbriche ebbe fin dall'inizio una tale estensione e una tale risonanza da fare sorgere l'esigenza di una sua soluzione politica. Mentre gli industriali ponevano lo sgombero degli stabilimenti come pregiudiziale per una ripresa delle trattative con gli operai, gli organismi dirigenti di questi ultimi decisero sul da farsi in una serie di tese e drammatiche riunioni che ebbero luogo a Milano fra il 9 e l'11 settembre 1920. Il 9 settembre si riunì il Consiglio direttivo della C.G.d.L., ove venne in discussione l'ipotesi di un'iniziativa insurrezionale (cui comunque i vertici del sindacato, come si è detto, erano contrari); erano presenti due dirigenti del P.S.I. torinese, uno dei quali era Palmiro Togliatti che, ad una precisa domanda, rispose che, in ogni caso, non sarebbero stati gli operai di Torino a cominciare da soli l'insurrezione. Gli ordinovisti temevano, in effetti, che una loro eventuale sortita sarebbe stata sconfessata, a livello nazionale, sia dal partito sia dal sindacato (come del resto era già accaduto in aprile in occasione dello sciopero delle lancette), cosicché il movimento torinese, rimasto ancora una volta isolato, sarebbe stato schiacciato militarmente. Il 10 settembre, in una riunione congiunta fra la direzione della C.G.d.L. e quella del P.S.I., i massimi dirigenti del sindacato manifestarono l'intenzione di dimettersi qualora il partito volesse assumersi la responsabilità di avocare a sé la guida del movimento per condurlo a un esito rivoluzionario. Ma la segreteria del P.S.I., di fatto, lasciò cadere la proposta, demandandone la decisione al Consiglio nazionale della C.G.d.L. che si sarebbe riunito l'indomani. Fu così che, l'11 settembre 1920, ebbe luogo la cruciale seduta in cui il Consiglio nazionale della C.G.d.L. fu chiamato a deliberare su due mozioni contrapposte: una prevedeva di demandare "alla Direzione del Partito l'incarico di dirigere il movimento indirizzandolo alle soluzioni massime del programma socialista, e cioè la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio"; l'altra mozione, proposta dalla stessa segreteria della C.G.d.L., prevedeva invece, quale obiettivo immediato della lotta, non la rivoluzione socialista bensì solamente "il riconoscimento da parte del padronato del principio del controllo sindacale delle aziende"[71]. Prevalse a maggioranza quest'ultima mozione, che sanciva la rinuncia a fare dell'occupazione la prima fase di un più ampio moto rivoluzionario. Anche dopo il voto, il P.S.I. avrebbe potuto (in base al patto d'alleanza stipulato con la C.G.d.L. nel 1918) assumersi d'autorità la guida del movimento, esautorando il sindacato. Ma il segretario del P.S.I. Egidio Gennari dichiarò che il suo partito non intendeva per il momento avvalersi di tale facoltà. Intanto nelle fabbriche occupate la tensione rimaneva alta. La notte del 13 settembre un industriale torinese, in uno scontro a fuoco, uccise a fucilate i due operai Raffaele Vandich e Tommaso Gatti. Quando fu chiaro che i massimi organi dirigenti del movimento operaio italiano avevano di fatto rinunciato ad ogni ipotesi rivoluzionaria, Giovanni Giolitti ebbe campo libero per spiegare la sua attività di mediazione fra la Confindustria e la C.G.d.L. (essendo ormai il P.S.I. fuori dal gioco). Si arrivò così, non senza resistenze da parte confindustriale, all'accordo di massima siglato a Roma il 19 settembre 1920, accordo che fu per gli operai, sul piano strettamente sindacale, un buon successo (perché stabiliva significativi aumenti salariali e miglioramenti normativi in materia di ferie, di licenziamenti ecc.), ma allo stesso tempo una netta sconfitta politica, perché prevedeva lo sgombero delle fabbriche occupate e impegnava soltanto il governo ad approntare un disegno di legge sul controllo operaio (disegno di legge che peraltro non fu mai approvato). I giorni a ridosso dell'accordo fra industriali e sindacato furono caratterizzati da un acuirsi della tensione a Torino, dove, il 19 settembre, un operaio rimase ucciso in uno scontro fra Guardie rosse e forze dell'ordine; il 22, in altri scontri a a fuoco, morirono un brigadiere dei carabinieri, una guardia regia e un passante; il 23 settembre venne alla luce un grave fatto di sangue: furono rinvenuti i cadaveri di un giovane nazionalista e di una guardia carceraria. Più precisamente, si scoprì che l'impiegato oleggese Mario Sonzini, sindacalista e membro della commissione interna alle Officine Metallurgiche, era stato sequestrato dalle Guardie rosse e, dopo una sorta di processo sommario, era stato ucciso a pistolettate, sorte condivisa a poche ore di distanza anche dalla guardia carceraria Costantino Scimula. Dalle seguenti indagini si venne a scoprire che i due uccisi non erano stati gli unici sequestrati dalle Guardie rosse in quei giorni a Torino. La dinamica di questo delitto, che presentava caratteri di particolare efferatezza, fu poi chiarita dal processo penale che ebbe luogo nel 1922 e che si concluse con la condanna di undici imputati a pene che andarono da un anno a trenta anni di reclusione. Le indagini e il processo furono seguiti con grande enfasi dalla stampa, e il tragico caso di Sonzini e Scimula divenne, in quegli anni, uno dei cavalli di battaglia della propaganda anticomunista. Fra il 25 e il 30 settembre gli occupanti sgomberarono pacificamente le fabbriche, riconsegnandole agli industriali. Il 27 settembre, quando l'occupazione si poteva già considerare conclusa, l'edizione torinese dell'"Avanti!" pubblicò un editoriale in cui, oltre ad ammettere la sconfitta degli operai, si accusavano i dirigenti riformisti di essere responsabili della medesima[86]. Dopo la ratifica dell'accordo da parte delle rispettive organizzazioni, i dirigenti della F.I.O.M. e della Confindustria firmarono il concordato definitivo a Milano il 1º ottobre 1920 Gli esiti politiciLe occupazioni, intese come l'inizio di un processo rivoluzionario, non riuscirono a produrre cambiamenti sensibili, soprattutto a causa della mancanza di strategia della classe dirigente socialista e dell'incapacità di diffusione del movimento nel resto della società. Giolitti assunse un atteggiamento neutrale, nonostante le pressioni degli industriali per sgomberare le fabbriche con l'esercito, presumendo che gli operai, non essendo in grado di gestire le fabbriche, avrebbero prima o poi accettato di trattare. Giovanni Giolitti sintetizzò così la sua linea politica nei confronti dell'occupazione delle fabbriche:
Del tutto opposta la valutazione offerta, alcuni anni dopo i fatti, da un altro protagonista della vicenda, Antonio Gramsci, il quale affermò che, nei giorni dell'occupazione, la classe operaia aveva dimostrato la sua capacità di autogovernarsi, aveva saputo mantenere e superare i livelli produttivi del capitalismo, e aveva dato prova di iniziativa e di creatività a tutti i livelli; la sconfitta era stata determinata, secondo l'opinione di Gramsci, non da una presunta "incapacità" degli operai, bensì da quella dei loro dirigenti politici e sindacali:
La vicenda dell'occupazione delle fabbriche ingenerò rabbia e frustrazione negli industriali, i quali, per quasi un mese, si erano visti spossessati dei propri stabilimenti, e che avevano dovuto alla fine accettare le richieste sindacali operaie, e alimentò i loro propositi di rivalsa, anche nei confronti del governo e dello stesso Stato liberale che (secondo loro) non li aveva sufficientemente tutelati; la classe operaia, invece, subì un contraccolpo psicologico di delusione e di scoraggiamento, in quanto aveva dovuto restituire agli industriali il possesso delle fabbriche senza ottenere alcun reale avanzamento politico. La conclusione della vicenda portò inoltre ad una crisi il Partito socialista, che si divise tra coloro che ritenevano opportuno continuare la lotta e i dirigenti che avevano accettato l'accordo. Le elezioni amministrative del novembre 1920 e la fine del biennio rossoIl Partito socialista italiano ottenne ancora un successo nelle elezioni generali amministrative che si tennero nell'ottobre e novembre del 1920, raggiungendo la maggioranza in 26 dei 69 consigli provinciali e in 2.022 comuni su 8.346; in particolare, la maggior parte delle amministrazioni comunali dell'Emilia e della Toscana furono conquistate dai socialisti[93]. In questi centri i sindaci e gli amministratori socialisti poterono esercitare una serie di importanti funzioni, fra cui l'assistenza sociale, la riscossione e l'impiego dei tributi locali e la gestione dei beni di proprietà del comune Tuttavia i risultati elettorali del P.S.I. furono meno brillanti di quelli conseguiti nelle elezioni politiche del novembre 1919. Nelle elezioni amministrative del 1920 si verificò inoltre la tendenza dei partiti borghesi a coalizzarsi in funzione antisocialista, nei cosiddetti "blocchi nazionali" o "blocchi patriottici" che spesso comprendevano anche i fascisti. Ciò fu indice del crescente orientamento di certi settori della borghesia verso soluzioni apertamente anti-socialiste e autoritarie. L'avversione della piccola borghesia verso i moti operai era stata alimentata, fra l'altro, dall'atteggiamento di ostilità del partito socialista nei confronti degli ufficiali delle forze armate; questi reduci furono spesso insultati per strada, in quanto ritenuti responsabili dello scoppio della guerra. Ad esempio Piero Operti, che nell'ottobre 1920 a Torino era insieme ad altri reduci degenti nel locale ospedale, riferisce di aver subito un'aggressione da parte di militanti socialisti; secondo il suo resoconto, le medaglie gli furono strappate e, gettate al suolo, gli furono calpestate. Benché gli episodi di questo tipo fossero in realtà meno gravi e meno frequenti di quanto affermasse la pubblicistica antisocialista dell'epoca, essi contribuirono potentemente ad alienare al P.S.I. le simpatie di vasti strati della piccola e media borghesia, da cui provenivano la gran parte degli ex ufficiali e sottufficiali. Di fatto, verso la fine del 1920, dopo la conclusione della vicenda dell'occupazione delle fabbriche e dopo le elezioni amministrative, il movimento fascista, che fino ad allora aveva avuto un ruolo piuttosto marginale, iniziò la sua tumultuosa ascesa politica che fu caratterizzata dal ricorso massiccio e sistematico alle azioni squadristiche. Un tentativo di quantificare i costi, in termini di vite umane, delle agitazioni del Biennio rosso fu compiuto da Gaetano Salvemini: questo storico, basandosi sulle cronache giornalistiche dell'epoca, calcolò in 65 le vittime complessive delle violenze operaie nel biennio, mentre nello stesso periodo 109 militanti di parte operaia morirono per mano delle forze dell'ordine durante scontri di piazza, e altri 22 furono uccisi da altre persone. La repressione dei moti popolari fu particolarmente cruenta nelle campagne. Sicuramente l'episodio più efferato fu l'eccidio di Canneto Sabino in provincia di Rieti dove restarono uccisi 11 braccianti, tra cui 2 donne. Il 15 gennaio 1921 a Livorno si tenne il XVII Congresso Nazionale del Partito socialista che vide la scissione della componente comunista che pochi giorni dopo diede vita al Partito comunista d'Italia. Tra i fondatori del nuovo partito vi furono personaggi di spicco messisi in evidenza durante i moti come Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci. Il dibattito politico e storiografico sul biennio rossoLa pubblicistica del fascismo dipinse il biennio rosso come un'epoca di profondo disordine, caratterizzata da gravi e massicce violenze operaie e dal pericolo incombente di una rivoluzione bolscevica, pericolo che, in Italia, sarebbe stato sventato - secondo questa interpretazione - solo dall'avvento al potere di Mussolini. Secondo i comunisti, nel biennio 1919-20 sarebbero esistiti, in molti paesi europei, tutti i presupposti per una rivoluzione proletaria vittoriosa, la quale non ebbe luogo solo a causa del tradimento o (soprattutto nel caso dell'Italia) dell'insipienza dei dirigenti socialisti e socialdemocratici. Si è già avuto modo di vedere, in questo senso, l'opinione espressa da Gramsci nel 1926: ma simile fu anche la posizione ufficiale del Comintern e tale è il giudizio di molti storici e intellettuali di orientamento marxista. Valga per tutti l'opinione di Trockij:
Altri autori sottolineano invece la capacità di tenuta dimostrata dai sistemi capitalistici nella crisi del 1919-20 e l'immaturità delle forze rivoluzionarie, le quali non seppero, per limiti propri oltre che per le circostanze meno propizie, ripetere l'exploit dei bolscevichi russi nel 1917. Sulla scorta di simili considerazioni, questi storici negano che, nel biennio rosso, vi siano state reali possibilità di una rivoluzione di tipo bolscevico in Europa occidentale. Una ulteriore linea interpretativa è costituita da quegli storici i quali intravedono, nel biennio 1919-20, la possibilità di una "terza via" fra conservazione del capitalismo e rivoluzione bolscevica. Questi autori sottolineano l'elemento di novità costituito dai Consigli e opinano che, sul fondamento di questa istituzione operaia, avrebbe potuto nascere e consolidarsi in Europa, in quegli anni, un nuovo tipo di democrazia diretta a base popolare. Secondo questi storici, l'opportunità non fu colta perché i socialdemocratici non vollero, e i comunisti non seppero, valorizzare appieno l'istituzione consiliare. |