Montanelli Indro |
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Sabato 22 Dicembre 2012 12:28 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Indro Montanelli (Fucecchio, 22 aprile 1909 – Milano, 22 luglio 2001) è stato un giornalista, saggista e commediografo italiano.
Giornalista dalla prosa secca e asciutta, era in grado di spaziare dall'editoriale al reportage e al corsivo pungente. Fu per circa quattro decenni la bandiera del primo quotidiano italiano, il Corriere della Sera, e per vent'anni condusse un importante quotidiano d'opinione da lui stesso fondato, il Giornale. Fu autore di libri di storia cui arrise un vasto successo. In ognuno di questi ruoli seppe conquistarsi un largo seguito di lettori.
Biografia
Infanzia e giovinezza
Figlio di Sestilio Montanelli (1880 – 1972) e di Maddalena Doddoli (1886 – 1982), Indro nacque a Fucecchio (FI) in Toscana[1] nel palazzo di proprietà della famiglia della madre. A tale circostanza sono riferite alcune «leggende», la più famosa delle quali – raccontata dallo stesso Indro – narra che dopo un litigio (gli abitanti di Fucecchio erano divisi in «insuesi» e in «ingiuesi», cioè di sopra e di sotto; la madre era insuese e il padre ingiuese) la famiglia materna ottenne di far nascere il bambino nella propria zona collinare, mentre il padre scelse un nome adespota, estraneo alla famiglia materna e neppure presente nel calendario[2]. Il nome Indro, scelto dal padre, infatti è la mascolinizzazione del nome della divinità induista Indra, poi trasformato nel soprannome "Cilindro" dagli amici e anche da alcuni avversari politici[3].
Passò l'infanzia nel paese natale, spesso ospite nella villa di Emilio Bassi, sindaco di Fucecchio per quasi un ventennio, nei primi anni del Novecento. A Emilio Bassi, che considerava come un «nonno adottivo», restò legato tanto da volere che a lui fosse cointitolata la Fondazione costituita nel 1987.[4]
Sin da ragazzo, Montanelli iniziò a soffrire di depressione, un male che lo segnerà per tutta la vita[5]:
Il padre, preside di Liceo (il più giovane d'Italia[5]), fu trasferito prima a Rieti (nel 1922), poi a Lucca, nonché a Nuoro presso il Liceo Classico "G. Asproni", dove il giovane Indro lo seguì. A causa degli spostamenti del padre, frequentò il liceo a Rieti, dove nel 1925 conseguì la maturità. Prima di diplomarsi, insieme al figlio del locale prefetto, aveva organizzato uno sciopero degli studenti e una manifestazione contro gli stessi preside e prefetto[5] (episodio poi raccontato dallo stesso Montanelli in Un due tre, trasmissione televisiva del 1959).
Nel 1930 si laureò in giurisprudenza a Firenze, con un anno di anticipo sulla durata normale dei corsi, discutendo una tesi sulla «legge Acerbo» in cui criticava il provvedimento, sostenendo che era stato pensato per abolire le elezioni[7]. Ottenne la valutazione di centodieci e lode.[8] Successivamente frequentò corsi di specializzazione all'Università di Grenoble, della Sorbona e di Cambridge. Nel 1932 ottenne una seconda laurea, in scienze politiche e sociali, sempre a Firenze[9], con una tesi in cui valutava positivamente la politica di isolamento inglese[7].
Nel 1929 fu allievo ufficiale a Palermo ove, vittima delle crisi depressive, fu raggiunto dalla madre che provava a rassicurarlo[5]. La madre, molto tempo dopo, raccontò l'episodio in televisione[10].
Gli anni trenta
Montanelli debuttò sulla rivista Frontespizio di Piero Bargellini, con un articolo su Byron e il cattolicesimo (luglio-agosto 1930). Fu attento lettore di altre riviste, specie di L'Italiano di Leo Longanesi (destinato, dal 1937, a diventare suo grande amico e, nel secondo dopoguerra, suo editore) e di Il Selvaggio di Mino Maccari: periodici, entrambi, che pur essendo fascisti furono fra i primi a fare "fronda", cioè a rompere con il coro conformista del regime.
Nel 1932 collaborò al periodico fiorentino l'Universale di Berto Ricci, con una diffusione di circa millecinquecento copie. Nello stesso anno fu ricevuto da Benito Mussolini il quale, secondo il racconto che lo stesso Montanelli avrebbe reso ad Enzo Biagi per la trasmissione Questo secolo, del 1982, intendeva elogiarlo per un articolo anti-razzista che aveva scritto[11].
Dopo un breve soggiorno a Grenoble[5], esordì come giornalista di cronaca nera nel 1934 a Parigi, al Paris-Soir, al quale si era offerto come "informatore volontario"[5]. Collaborava contemporaneamente al quotidiano italo-francese diretto da Italo Sulliotti L'Italie Nouvelle. Fu poi mandato come corrispondente in Norvegia e da lì in Canada (sempre per Paris-Soir)[5]. Gli articoli che Montanelli spedì dal Canada furono notati da Webb Miller, all'epoca inviato parigino della United Press, che suggerì all'agenzia di assumerlo. Montanelli iniziò quindi a lavorare come apprendista alla sede centrale della UP, a New York[5], mantenendo tuttavia rapporti professionali con Paris-Soir[7]. Fu infatti la rivista parigina a offrirgli la possibilità di realizzare il suo primo scoop[13][14], un'intervista con il magnate Henry Ford.
Nel 1935 l'Italia fascista invase l'Etiopia. Montanelli si propose come inviato in zona di guerra, ma l'agenzia non acconsentì perché essendo italiano non avrebbe potuto essere obiettivo nelle sue corrispondenze, così lasciò la United Press e si arruolò volontario[11].
Partecipò alla guerra (iniziata nell'ottobre 1935) come sottotenente in un battaglione coloniale di Ascari (comandante di compagnia in seno al XX Battaglione Eritreo[5]):
La guerra di Montanelli durò solo fino a dicembre: fu ferito e dovette abbandonare i combattimenti. Durante la sua permanenza al fronte aveva iniziato a scrivere un libro-reportage, che diede alle stampe all'inizio del 1936, mentre era ancora all'estero[5]. L'opera, XX Battaglione Eritreo, in maggio fu recensita favorevolmente da Ugo Ojetti (sul Corriere della Sera) e da Goffredo Bellonci; la sua tiratura raggiunse le 30.000 copie[5]. Il padre di Indro, Sestilio, si trovava in Africa Orientale per dirigere una commissione di esami per militari e civili dell'esercito residenti nelle colonie. Intercesse presso il direttore del quotidiano di Asmara La Nuova Eritrea, Leonardo Gana, facendolo assumere. Montanelli ottenne così la tessera di giornalista. Nel gennaio 1936 fu trasferito dal XX Battaglione Eritreo al Drappello Servizi Presidiari e iniziò a prestare servizio presso l'Ufficio Stampa e Propaganda.[16]
In Etiopia Montanelli sposò un'eritrea musulmana di 12 anni, Fatima[5], versando al padre la convenuta cifra di 500 lire, secondo i costumi locali; compresi nel prezzo, ebbe a raccontare l'interessato, anche un cavallo e un fucile[11]. Questa prima moglie lo seguì per l'intera permanenza in Africa.[17]
Redattore de La Nuova Eritrea, Montanelli scrisse un pezzo per Civiltà Fascista intitolato "Dentro la guerra":
Manlio Morgagni, direttore dell'Agenzia Stefani e fedelissimo di Mussolini, lo avrebbe voluto come corrispondente dall'Asmara, ma la trattativa non ebbe esito positivo. Quando il padre ritornò in Italia, Indro lo seguì.[19]
Tornato in Italia nell'agosto 1936, Montanelli ripartì per la guerra civile spagnola come corrispondente per il quotidiano romano Il Messaggero, scrivendo articoli anche per L'Illustrazione Italiana e il neonato settimanale Omnibus di Longanesi. Le sue posizioni sulla spedizione in Spagna gli crearono seri problemi con il regime.
In un resoconto sulla battaglia di Santander diede descrizione della resa della guarnigione repubblicana iniziando con questo incipit: "È stata una lunga passeggiata militare con un solo nemico: il caldo."[10][20] La sua simpatia per gli anarchici spagnoli lo portò ad aiutare uno di loro, che accompagnò fuori della frontiera; il gesto venne ricompensato da "El Campesino"[21], capo anarchico della 46ª divisione nella Guerra di Spagna, con il dono di una tessera della Federación Anarquista de Cataluña di cui Montanelli si sarebbe fregiato per tutta la vita[22]. Una volta rimpatriato, il minculpop, con l'intervento diretto di Mussolini, lo cancellò dall'albo dei giornalisti per l'articolo sulla battaglia di Santander, considerato offensivo per l'onore delle forze armate. Gli fu anche tolta la tessera del Partito[20], che poi nulla egli fece per riavere. Alla vigilia del processo con il quale avrebbe potuto essere condannato al confino, Montanelli raccontò di aver minacciato che in dibattimento avrebbe chiesto che venisse fatto il nome di un morto, uno solo; "e allora il processo non si fece più"[10].
Per evitare il peggio, Giuseppe Bottai, allora ministro dell'Educazione nazionale e suo amico dai tempi dell'Etiopia[5], prima gli trovò in Estonia un lettorato di italiano nell'Università di Tartu, poi lo fece nominare direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di Tallinn, la capitale[23]. Come racconta in Pantheon Minore, a Tallinn, su richiesta del colonnello russo Engelhardt, Montanelli diede ospitalità alla moglie russa di Vidkun Quisling, che di lì a qualche anno sarebbe divenuto il capo del regime collaborazionista di Oslo, avendo modo in quell'occasione di conoscere anche il futuro fører di Norvegia[5][24].
Gli anni della seconda guerra mondiale
Ritornato in Italia, entrò nel 1938 al Corriere della Sera grazie anche all'interessamento di Ugo Ojetti, che credeva nel suo talento giornalistico[25]. Ojetti, ex direttore del Corriere, fece il suo nome ad Aldo Borelli, il direttore in carica, che l'incaricò di scrivere articoli di viaggi e letteratura, con la consegna di tenersi lontano dai temi politici[26]
Montanelli fece l'inviato di guerra[27] in giro per l'Europa. Nel 1939 fu in Albania, diventata quell'anno colonia italiana; sarebbe stato Bottai a fare il suo nome a Galeazzo Ciano, indicandolo come la persona più adatta a raccontare la nuova conquista[5].
Tornato dall'Albania, seguì nell'agosto 1939 un gruppo di 200 giovani fascisti che partivano per un'impresa di ardimento consistente nel percorrere in bicicletta la Germania, da Sud a Nord, sino a Berlino, con la scorta di una colonna della Hitlerjugend[5]. Fra le sue corrispondenze, ve ne fu una in cui si inventò che i ciclisti italiani si sarebbero fermati in Austria ad aiutare i coloni a mietere il grano[5].
Il 1º settembre 1939[28], mentre si trovava ancora in Germania, conobbe sul Corridoio di Danzica Adolf Hitler, alla presenza dello scultore Arno Breker e dell'architetto Albert Speer (che confermò poi, nel 1979, la veridicità di quell'incontro).[29]
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, Montanelli si recò al fronte. Oltre all'invasione della Polonia, assistette a quella dell'Estonia da parte dei sovietici. In Finlandia dall'ottobre 1939, fu appassionato testimone del tentativo d'invasione da parte dell'URSS; nei suoi articoli per il Corriere della Sera trasparve una forte propensione per la causa finlandese. Da quelle corrispondenze nacque I cento giorni della Finlandia. Dopo il Trattato di Pace di Mosca (12 marzo 1940), si spostò in Norvegia per seguire l'invasione del paese ad opera dei tedeschi. Poi in maggio rientrò in Italia (dal 29 gennaio era stato reintegrato nella redazione del Corriere della Sera con un regolare contratto di assunzione).
Con l'entrata in guerra dell'Italia (giugno 1940), Montanelli venne inviato in Francia e nei Balcani; poi gli fu assegnato l'incarico di seguire la campagna militare italiana come corrispondente dalla Grecia e dall'Albania. Raccontò di aver scritto poco, per malattia ma soprattutto per onestà intellettuale: il regime gli imponeva l'obbligo di propaganda, ma sotto i suoi occhi l'esercito italiano subiva seri danni[30].
Decise di rimpatriare nel 1942 per sposarsi con l'austriaca Margarethe De Colins De Tarsienne[31], che aveva conosciuto nel 1938 (l'unione si concluse con la separazione nel 1951).[32]. Dal 1942 al 1943 scrisse sul settimanale Tempo sotto lo pseudonimo di "Calandrino".[31]
Nel 1943 visse il disfacimento dell'8 settembre e si associò al movimento Giustizia e Libertà. Fu inserito nella lista dei ricercati; scoperto dai tedeschi prima che riuscisse ad unirsi effettivamente alle formazioni combattenti, fu incarcerato (5 febbraio 1944) e condannato a morte (20 febbraio 1944). Riuscì ad evitare la sentenza per intercessione del cardinale di Milano Ildefonso Schuster[33][34][35][36][37][38][39][40][41]. Fuggì da San Vittore grazie all'aiuto della famiglia Crespi, proprietaria del Corriere della Sera[42][43]. Successivamente fu aiutato a fuoriuscire dall'Italia grazie alla rete clandestina O.S.C.A.R. (Opera Scoutistica Cattolica Aiuto Ricercati). Dall'esperienza trascorsa nella prigione di Gallarate e poi in quella di San Vittore trasse ispirazione per il romanzo Il generale Della Rovere[44].
Dopo la sua fuga dal carcere, Montanelli trovò rifugio in Svizzera, dove però incontrò una fredda accoglienza da parte della comunità di fuoriusciti antifascisti, i quali gli rinfacciarono le sue esperienze militari e giornalistiche sotto il regime. Fu anche a causa di questo che, quando Montanelli fece ritorno in Italia (25 aprile 1945), dovette affrontare un clima ostile[45]. Il Corriere della Sera era stato commissariato, in nome del Comitato di liberazione nazionale, da Mario Borsa, il quale organizzò l'epurazione di vari giornalisti ritenuti colpevoli di connivenza col regime[46]. A indicare i nomi degli epurati fu designato Mario Melloni, il futuro "Fortebraccio", che «siccome era un galantuomo, alle fine non epurò nessuno, o quasi. Io [Montanelli] fui uno dei pochi»[47]. Montanelli dovette ricominciare dal "settimanale popolare" del Corriere, La Domenica del Corriere (all'epoca intitolata "Domenica degli Italiani"), di cui assunse la direzione nel 1945. Solo alla fine dell'anno seguente poté tornare in via Solferino.
Riallacciò i rapporti con l'amico Leo Longanesi, pubblicando alcune opere con la sua nuova casa editrice, la Longanesi & C (tra cui Morire in piedi, 1949). Nel 1950, assieme a Giovanni Ansaldo e Henry Furst, aiutò Longanesi a fondare il settimanale Il Borghese. Scrisse anche un articolo per il primo numero, datato 15 marzo 1950[48].
Montanelli, oltre che con Longanesi, strinse un'amicizia profonda con un altro personaggio importante nella cultura italiana dell'epoca, Dino Buzzati.[49] Il terzo intellettuale con cui Montanelli strinse una forte e duratura amicizia fu Giuseppe Prezzolini, che stimava per l'indipendenza di pensiero[50].
Gli anni cinquanta e sessanta
Fino alla fine del 1953 Montanelli fu impegnato come inviato speciale del Corriere, spesso all'estero. Dal 1954 iniziò la sua collaborazione stabile con Il Borghese, in cui firmò gli articoli sotto gli pseudonimi di Adolfo Coltano[51] e Antonio Siberia e di cui fu una delle tre colonne portanti, assieme a Longanesi e Giovanni Ansaldo.[52].
Nello stesso periodo accettò la richiesta di Dino Buzzati di tornare a collaborare con La Domenica del Corriere. Buzzati gli diede una pagina intera; nacque la rubrica «Montanelli pensa così», che divenne poi «La Stanza di Montanelli», uno spazio in cui il giornalista rispondeva ai lettori sui temi di attualità più caldi. In breve tempo diventò una delle rubriche più lette d'Italia.
Grazie al successo della rubrica, Montanelli accettò di scrivere a puntate la storia dei Romani e poi quella dei Greci. Cominciò così la carriera di storico, che fece di Montanelli il più venduto storico italiano[53].
Il primo libro venne intitolato Storia di Roma e fu pubblicato a puntate su La Domenica del Corriere e poi, nel 1957, raccolto in volume per Longanesi. Dal 1959 in poi la fortunata serie venne edita dalla Rizzoli Editore. La serie continuò con la Storia dei Greci, per poi riprendere con la Storia d'Italia dal Medioevo ad oggi.
Quando la parlamentare socialista Lina Merlin nel 1956 propose un disegno di legge che prevedeva l'abolizione della regolamentazione della prostituzione in Italia e la lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui, in particolare attraverso l'abolizione delle case di tolleranza, Montanelli si batté pervicacemente contro quella che veniva già chiamata – e si sarebbe da allora chiamata – "Legge Merlin". Diede alle stampe un pamphlet intitolato Addio, Wanda!, nel quale scriveva tra l'altro:
Nello stesso 1956 la sua attività d'inviato aveva portato Montanelli a Budapest, dove fu testimone della rivoluzione ungherese. La repressione sovietica gli ispirò la trama di un'opera teatrale, I sogni muoiono all'alba (1960), da lui portata anche al cinema l'anno successivo insieme a Mario Craveri ed Enrico Gras, con Lea Massari e Renzo Montagnani nel ruolo dei giovani protagonisti.
Nel 1959 Montanelli fu protagonista della prima intervista rilasciata da un papa ad un quotidiano laico[54], pubblicando il resoconto di un suo incontro con Giovanni XXIII. Il pontefice, tramite il suo segretario Loris Capovilla, aveva informato Missiroli di voler concedere un'intervista a un giornalista esterno al mondo cattolico. Il direttore del giornale designò perciò Montanelli al posto del vaticanista del Corriere, Silvio Negro. Superato l'iniziale imbarazzo nel trovarsi di fronte a un mondo a lui non familiare, il giornalista intrattenne una lunga conversazione con il papa, il quale gli confidò anche alcune sue opinioni private, come la sua scarsa stima per il suo predecessore Pio X, canonizato alcuni anni prima[55]. L'incontro con Giovanni XXIII fu pubblicato sulla terza pagina del Corriere, cosa che Montanelli considerò una posizione inadatta per lo storico evento (il giornalista attribuì questa scelta di Missiroli alla sua preoccupazione di non offendere Negro per l'esclusione)[54]. D'altra parte, il direttore rimproverò a Montanelli di avere relegato a un accenno la storica decisione dell'indizione del Concilio Vaticano II, una notizia che Giovanni XXIII aveva ufficializzato proprio durante l'incontro: Montanelli, inesperto del linguaggio ecclesiastico, non aveva colto l'importanza dell'annuncio[56].
Nel 1963, dopo il disastro del Vajont, Montanelli assunse una posizione controversa in merito alle reali cause della tragedia,[57] affermando il carattere di catastrofe naturale della stessa[58] e tacciando di "sciacallaggio" l'attività di alcuni giornalisti italiani, tra i quali Tina Merlin dell'Unità, che avevano denunciato i rischi derivanti dalla costruzione della diga per l'incolumità della popolazione; egli non rinnegò mai questa sua opinione negli anni, nonostante le responsabilità accertate dalla magistratura[59].
A partire dal 1965 partecipò attivamente al dibattito sul colonialismo italiano. In accesa polemica con lo storico Angelo Del Boca, Montanelli sostenne ostinatamente l'opinione secondo cui quello italiano fu un colonialismo mite e bonario, portato avanti grazie all'azione di un esercito cavalleresco, incapace di compiere brutalità, rispettoso del nemico e delle popolazioni indigene[60]. Nei suoi numerosi interventi pubblici negò ripetutamente l'impiego sistematico di armi chimiche come iprite, fosgene e arsine da parte dell'aviazione militare italiana in Etiopia[61][14], salvo poi nel 1996 scusarsi quando il suo oppositore dimostrò, documenti alla mano, l'impiego di tali mezzi di distruzione[62].
Dichiaratamente anticomunista, "anarco-conservatore" (come amava definirsi su suggestione del grande amico Prezzolini) e controcorrente, vedeva nelle sinistre un pericolo incombente[63], in quanto foraggiate dall'allora superpotenza sovietica[64].
Nel 1968 Montanelli pubblicò sul Corriere una serie di inchieste sulle città che aveva maggiormente nel cuore. I servizi riguardarono, tra le altre, Firenze e Venezia. Il giornalista dedicò ampio spazio alla Serenissima,[65] lanciando l'allarme per la salvaguardia della città. Montanelli rilevò i pericoli che la crescente industrializzazione stava arrecando al delicato ecosistema lagunare. Stabilì un rapporto causa-effetto tra la forte industrializzazione della zona attorno a Porto Marghera e l'inquinamento a Venezia, la città e i suoi monumenti. Infine denunciò il silenzio delle pubbliche autorità, che continuavano ad ignorare i sintomi del degrado della laguna (su tutti l'acqua alta, che proprio in quegli anni iniziava ad essere molto frequente). Impiegò, in quest'opera di impegno civile svincolata da tematiche o colorazioni partitiche, tutta la sua autorevolezza personale[66]. L'anno seguente, nel 1969, Montanelli registrò tre reportage televisivi per la Rai, dedicati rispettivamente a Portofino, Firenze e Venezia[67].
Interrogato sulle sue presunte simpatie fasciste, Montanelli nel 1972 dichiarò ne L'ora della verità, trasmissione televisiva di Gianni Bisiach:
L'abbandono del Corriere
A partire dalla metà degli anni sessanta, dopo la morte di Mario e Vittorio Crespi e la grave malattia del terzo fratello Aldo, la proprietà del Corriere fu gestita dalla figlia di quest'ultimo[37]. Sotto il controllo di Giulia Maria, il quotidiano operò una netta virata a sinistra. La nuova linea venne varata nel 1972, con il licenziamento in tronco del direttore Giovanni Spadolini e la sua sostituzione con Piero Ottone.
Montanelli diede un giudizio tagliente sull'operazione. In un'intervista a L'Espresso dichiarò che «Un direttore non lo si caccia via come un domestico ladro» e, rivolgendosi ai Crespi, stigmatizzò il «modo autoritario, prepotente e guatemalteco che hanno scelto per imporre la loro decisione»[68]. L'articolo fece sensazione. Montanelli ricevette addirittura una proposta di candidatura alle imminenti elezioni politiche[69] da Ugo La Malfa, presidente del Partito repubblicano e suo amico personale (era stato lui a introdurre il giornalista, nel 1935, nel gruppo di antifascisti che in seguito avrebbero fondato il Partito d'Azione[70]). Montanelli declinò la proposta, girandola signorilmente a Spadolini. Un altro terreno di scontro con la proprietà del Corriere fu la sostituzione del capo della redazione romana, Ugo Indrio. Dopo il cambio di direttore, Indrio fu costretto a dimettersi; Montanelli lo difese, ma non riuscì ad evitare il suo allontanamento.
A partire dal 1973 Montanelli cominciò ad esprimere il proprio malumore sulla conduzione del giornale. Piero Ottone replicò con un articolo di fondo nel quale ribadiva la giustezza della propria posizione. Per evitare quella che considerava l'"autocensura rossa" attuata da molti colleghi, Montanelli scelse di limitarsi a curare una rubrica settimanale[71], «Montanelli risponde». Il giornalista entrò definitivamente in rotta di collisione con la proprietà in seguito a due interviste rilasciate nell'ottobre 1973 e ad un articolo molto polemico nei confronti di Camilla Cederna grande amica di Giulia Maria Crespi. La prima fu pubblicata il 10 ottobre sul settimanale politico-culturale Il Mondo. Montanelli dichiarava a Cesare Lanza:
E concludeva lanciando un appello:
La seconda uscì il 18 ottobre su Panorama. L'intervista, raccolta da Lamberto Sechi, venne pubblicata con il titolo «Montanelli se ne va». E nel sommario: "A novembre mi metto in pensione, annuncia il più famoso giornalista italiano. I motivi: dissensi sulla nuova linea del Corriere, vecchia ruggine con uno dei proprietari, Giulia Maria Crespi. Per adesso pensa a portare a termine gli ultimi volumi della sua Storia d'Italia. Ma non gli dispiacerebbe, dice, fondare un nuovo giornale" .
L'editorialista spiegava:
Nel seguito dell'articolo, Panorama scriveva che Montanelli stava già pensando di realizzare un nuovo giornale con alcuni suoi fedelissimi, molti dei quali lavoravano con lui al Corriere. Avuta l'anticipazione del testo, il 17 ottobre, Giulia Maria Crespi e Piero Ottone non apprezzarono affatto l'intervista. Quello stesso giorno, in serata, Ottone si recò al domicilio milanese di Montanelli per comunicargli la decisione del suo licenziamento. Montanelli, però, se ne andò volontariamente, presentando le dimissioni e accompagnandole da un polemico articolo di commiato. L'articolo non fu pubblicato: il Corriere diede la notizia con un comunicato, su una colonna, il 19 ottobre[72].
Il giorno stesso della sua uscita dal Corriere, Montanelli ricevette un'offerta da Gianni Agnelli, che gli propose di scrivere su La Stampa. L'offerta fu accettata. Indro pubblicò il suo primo pezzo sul quotidiano torinese il 28 ottobre[73]. Montanelli lasciò anche la sua "storica" rubrica sul settimanale La Domenica del Corriere per traslocare sul concorrente Oggi[74]. Il 17 marzo 1974 preannunciò sul quotidiano torinese il suo progetto di fondare un nuovo giornale; il suo ultimo articolo su La Stampa comparve il 21 aprile. Chiamò la nuova creatura Il Giornale Nuovo[75]. Nella sua "traversata nel deserto" dal Corriere al Giornale lo seguirono molti validi colleghi che, come lui, non condivisero il nuovo clima interno al Corriere, tra i quali Enzo Bettiza, Egisto Corradi, Guido Piovene, Cesare Zappulli, e intellettuali europei come Raymond Aron, Eugène Ionesco, Jean-François Revel e François Fejto.
All'inizio del 1974 il progetto di fondazione del nuovo quotidiano era definitivo. Trovò un insperato sostegno finanziario nella Montedison (guidata all'epoca da Eugenio Cefis), che gli fornì 12 miliardi di lire per tre anni[76]. Montanelli ottenne di rimanere il proprietario della testata con i giornalisti cofondatori.
Nello stesso anno si sposò in terze nozze con la collega Colette Rosselli, corsivista del settimanale Gente più nota con lo pseudonimo di «Donna Letizia»[77].
Direttore del Giornale
Con il Giornale (il primo numero uscì martedì 25 giugno 1974), Montanelli intese creare una testata che esprimesse le istanze delle forze produttive della società, in particolare della piccola e media borghesia lombarda[78], inserendosi nel dibattito politico in guisa di interlocutore esterno alla politica, non schierato se non su orientamenti di massima e fautore di una destra ideale[79]. L'iniziativa, in cui Montanelli ebbe l'opportunità di rappresentare con maggiore evidenza le proprie posizioni sempre poco conformiste e spesso originali, fu accolta con ostilità da gran parte del monto della stampa nazionale e degli ambienti di sinistra[80]. Il Giornale si avvalse della collaborazione di diverse grandi figure del giornalismo italiano, fra cui Enzo Bettiza e, successivamente, Gianni Brera.
La prassi giornalistica di Montanelli fu influenzata dal praticantato fatto negli Stati Uniti, tenendo presente la massima imparata alla United Press, vale a dire che ogni articolo deve poter essere letto e capito da chiunque, anche da un «lattaio dell'Ohio». Divenne membro onorario dell'Accademia della Crusca, per la quale si batté, sulle pagine del Giornale, cercando di coinvolgere direttamente i suoi lettori, così che uno dei più antichi e importanti centri di studio sulla lingua italiana non scomparisse.
Nel 1975, Montanelli troncò la quarantennale amicizia con Ugo La Malfa. Il motivo della rottura, avvenuta in seguito ad una violenta lite[81], fu la decisione, da parte del presidente del PRI, di sostenere il compromesso storico, ovvero il riavvicinamento fra DC e PCI[82]. La lite sarebbe stata ricomposta solo nel 1979, pochi giorni prima della scomparsa di La Malfa[83].
Fra gli episodi che Montanelli ritenne a posteriori più importanti[84] nella storia della sua conduzione del Giornale, vi furono due campagne, entrambe lanciate nel 1976. La prima fu la raccolta fondi lanciata a favore delle vittime del terremoto del Friuli, che in poche settimane raccolse tre miliardi di lire. I proventi, affidati al cronista Egisto Corradi, vennero usati per la ricostruzione dei comuni di Vito d'Asio e Montenars e della frazione di Sedilis, nel comune di Tarcento.
L'altra campagna fu l'invito a votare per la DC, lanciato alla vigilia delle elezioni politiche italiane del 1976[85]. Dinanzi alla crescita del Partito Comunista Italiano, Montanelli sollecitò gli elettori moderati a impedire la salita al potere del partito di Berlinguer con uno slogan poi divenuto celebre[86]:
Sempre nel 1976, Montanelli fu contattato da Mike Bongiorno, che gli propose di condurre, sulla nascente rete televisiva Telemontecarlo, un notiziario curato dalla redazione del Giornale. La trasmissione, anch'essa intitolata Il giornale nuovo e per trasmettere la quale il quotidiano versò cento milioni di lire, ebbe un notevole successo nonostante gli scarsi mezzi tecnici a disposizione: il telegiornale, registrato in uno scantinato a Milano, fece registrare un'audience di alcuni milioni di telespettatori[87]. La popolarità della trasmissione fu accolta con ostilità dagli ambienti di sinistra: in particolare Eugenio Scalfari, direttore di Repubblica, accusò TMC di essere una rete illegale, e alcuni pretori ne bloccarono le frequenze[88].
Per tutto il periodo della sua conduzione, Montanelli curò sul Giornale una rubrica quotidiana, intitolata "Controcorrente", in cui commentava in modo sarcastico fatti e personaggi d'attualità. Su questa rubrica, fra l'altro, proseguì il duello a distanza, già iniziato sulle colonne del Corriere, con Fortebraccio, divenuto corsivista per l'Unità. I due giornalisti, di opposte ideologie (Fortebraccio era comunista) ma identica vis polemica, mascherarono in realtà sotto i reciproci attacchi una relazione personale di amicizia e stima, come testimoniato dall'ironico epitaffio che Melloni dichiarò sull'Unità di volere per se stesso: "Qui giace Fortebraccio / che segretamente / amo' Indro Montanelli. / Passante, perdonalo / perche' non ha mai cessato / di vergognarsene". Montanelli, sul Giornale, replicò che avrebbe voluto essere seppellito a fianco del collega, sotto l'epitaffio: "Vedi / lapide / accanto".[89][90]
L'attentato delle Brigate Rosse
Il 2 giugno 1977 Montanelli fu vittima a Milano di un attentato delle Brigate Rosse. Mentre si stava recando, come ogni mattina, al giornale, venne ferito all'angolo fra via Manin e piazza Cavour (ove aveva sede il Giornale nel cosiddetto Palazzo dei giornali), con una pistola 7.65 munita di silenziatore. L'attentatore gli sparò tutti i sette colpi di un caricatore e un ottavo già in canna, colpendolo due volte alla gamba destra, una volta di striscio alla gamba sinistra e alla natica, secondo una pratica definita – con un neologismo coniato in quel periodo – «gambizzazione»[91].
L'attentatore, che probabilmente non sapeva che Montanelli portava con sé una pistola, lo avvicinò di spalle chiamandolo. Mentre il giornalista, fermatosi, stava girandosi per rispondergli, gli sparò a bruciapelo e poi scappò. Colpito, Montanelli, sentì cedere le gambe, ma non decise di estrarre la pistola. Il suo unico pensiero fu di non lasciarsi cadere a terra: si aggrappò alla cancellata dei Giardini[92] mentre urlava: "Vigliacchi, vigliacchi!" all'indirizzo dell'attentatore e di un suo complice in fuga; poi si lasciò scivolare a terra. Poco dopo dichiarò ad un soccorritore: "Quei vigliacchi mi hanno fottuto. Li ho visti in faccia, non li conosco, ma credo di poterli riconoscere"[93]. I proiettili trafissero la carne, fortunatamente senza ledere né ossa né vasi sanguigni [94].
Il Corriere della Sera dedicò un articolo al fatto di cronaca omettendo il suo nome nel titolo ("Milano […], gambizzato un giornalista"). Più ironico sulla Repubblica fu il vignettista Giorgio Forattini, che raffigurò l'allora suo direttore Eugenio Scalfari nell'atto di puntarsi una pistola contro il piede dopo aver letto la notizia dell'attentato a Montanelli, suggerendo che ne invidiasse la popolarità. Altri quotidiani pubblicarono la notizia in prima pagina[95].
L'attentato venne rivendicato dalla colonna Walter Alasia delle Brigate Rosse con una telefonata al Corriere d'Informazione. Secondo la rivendicazione dei terroristi perché "schiavo delle multinazionali". Due giorni prima, con la medesima tecnica, le Brigate Rosse avevano gambizzato a Genova Vittorio Bruno, vicedirettore de Il Secolo XIX, mentre il giorno successivo all'attentato a Montanelli venne gravemente ferito a Roma Emilio Rossi, a quel tempo direttore del TG1.
I rapporti con Silvio Berlusconi
Nel 1977 terminò il finanziamento della Montedison. Montanelli accettò il sostegno di Silvio Berlusconi, all'epoca costruttore edile, che divenne socio di maggioranza nell'ottobre 1979. Secondo Felice Froio, Montanelli, sottoscrivendo il contratto con Berlusconi, gli avrebbe detto: «Tu sei il proprietario, io sono il padrone almeno fino a che rimango direttore. […] Io veramente la vocazione del servitore non ce l'ho»[96].
Il loro sodalizio durò senza significativi contrasti fino al 1994. Secondo quanto racconta Marco Travaglio, in una delle visite di Montanelli presso la villa di Arcore, Berlusconi gli fece visitare il proprio mausoleo funebre e, al termine della visita, giunti presso la sala dei loculi, gli avrebbe offerto un posto vicino a Previti, Dell'Utri e se stesso. Ma Montanelli declinò l'offerta, rispondendo ironicamente con l'incipit di una preghiera liturgica: «Domine, non sum dignus» ("O signore, non sono degno")[97] .
Secondo la versione raccontata da Montanelli, in seguito alla "discesa in campo" di Berlusconi, questi si presentò all'ufficio amministrativo del Giornale chiedendo a Montanelli di supportarne le iniziative politiche. Egli però decise di non seguirlo. Il Giornale passò sotto la guida di Vittorio Feltri.
Da un'intervista audiovisiva rilasciata ad Alain Elkann si evince che la loro separazione fu presa di comune accordo. Nell'intervista con Elkann, Montanelli spiega meglio la dinamica della sua uscita dal Giornale. Egli, riferendosi a Berlusconi, racconta: «Gli dissi: “Io non mi sento di seguirti in questa avventura, quindi noi dobbiamo separarci”… fu una separazione consensuale fra me e Berlusconi. Il patto su cui si reggeva la nostra convivenza, che era stato scrupolosamente osservato da tutt'e due le parti (ossia "Berlusconi è il proprietario del Giornale, Montanelli ne è il padrone"), era venuto meno»[98]. Montanelli ricostruisce quindi il dialogo che avvenne con Berlusconi, asserendo che non volle mettersi al suo servizio, sia perché non si era mai messo a servizio di nessuno e non riteneva opportuno cominciare con Berlusconi, sia perché riteneva che Berlusconi non potesse avere successo in politica.
Altri invece, citando lo stesso Montanelli, parlano di un aspro conflitto tra lui e Berlusconi e non convengono con coloro che sostengono la tesi che l'abbandono di Montanelli fosse in comune accordo con la proprietà[99]. Nel sua testimonianza autobiografica pubblicata postuma nel 2002, in ogni caso, il giornalista dichiarò che ciò che aveva scritto nel suo fondo di addio, ovvero che se n'era andato di sua iniziativa e non perché costretto, era «la verità»[100].
Il 10 gennaio 1994, Montanelli in una lettera aperta a Silvio Berlusconi scrisse:
Risultò quindi per lui una sorpresa la vittoria del suo ex-editore, che attribuì a una combinazione di fortuna e fiuto, e in particolare al fatto che, dopo Mani Pulite, l'elettorato desiderava votare qualcosa di nuovo. Nel 1996 Berlusconi invitò Montanelli a cena nella sua villa di Arcore, per riconciliarsi con lui[101]. Montanelli rimase comunque sempre convinto che Berlusconi fosse inadatto al ruolo di politico, per i suoi atteggiamenti prima ancora che per il suo conflitto di interessi[102]. In occasione delle elezioni politiche del 2001, dichiarò pubblicamente che avrebbe dato il suo voto alla coalizione di centro-sinistra, in quanto, convinto che la Casa delle Libertà avrebbe vinto le elezioni (come poi avvenne), temeva che un successo con margine troppo largo di voti avrebbe potuto portare Berlusconi a ritenersi un nuovo "uomo della provvidenza"[103].
Direttore della Voce
Non ritenendo di poter accettare la direzione del Corriere della Sera (che non avrebbe assunto anche gli altri redattori del Giornale) offertagli da Paolo Mieli e Gianni Agnelli[25], Montanelli decise di fondare una nuova testata, La Voce, il cui nome fu scelto in omaggio a Giuseppe Prezzolini[104]. L'idea iniziale era di farne un settimanale[105], sul modello del Mondo di Mario Pannunzio: di conseguenza la progettazione della "terza pagina", la sezione culturale, risultò particolarmente curata. A far decidere Montanelli di pubblicare un quotidiano fu il numero di giornalisti alle sue dipendenze: a seguire il loro direttore nel passaggio dal Giornale alla Voce vi furono infatti 55 cronisti su 77[104]. Tra questi, Beppe Severgnini, Marco Travaglio e Peter Gomez. La nuova impresa tuttavia non ebbe vita lunga non riuscendo ad ottenere nel tempo un sufficiente volume di vendite: nonostante un esordio di 500.000 copie,[106][107] le vendite scesero presto sotto le 100.000 unità. L'ultimo numero fu pubblicato mercoledì 19 aprile 1995. Secondo Montanelli, una causa dell'insuccesso fu l'avere sovrastimato il numero di potenziali acquirenti della rivista, pensata per un pubblico di destra liberale, non soddisfatto della svolta populistica impressa da Berlusconi[104]. Un secondo errore fu la grafica troppo anticonvenzionale della pubblicazione, in particolare il fotomontaggio satirico e caricaturale che caratterizzava la prima pagina: la troppa aggressività delle immagini avrebbe contribuito ad allontanare i possibili acquirenti, abituati a uno stile più misurato[108]. In retrospettiva, tuttavia, l'avveniristica impostazione grafica, ideata dall'art director Vittorio Corona, avrebbe influenzato lo stile giornalistico degli anni successivi[109].
Dopo la chiusura della Voce, Montanelli tornò a lavorare per il Corriere della Sera, curando la pagina di colloquio coi lettori, la "Stanza di Montanelli". Le lettere e le risposte più significative furono in seguito raccolte nei due libri Le Stanze e Le Nuove stanze.
Il 22 luglio 2001, Montanelli si spense a Milano nella clinica La Madonnina (lo stesso luogo dove 29 anni prima era scomparsa un'altra figura storica del Corriere, Dino Buzzati). Il giorno seguente il direttore del Corriere della Sera pubblicò in prima pagina il necrologio di Montanelli, scritto da lui stesso pochi giorni prima di morire:
Migliaia di persone sfilarono nella camera ardente per rendergli omaggio[111].
Riconoscimenti ed eredità
Fra i vari riconoscimenti tributati a Montanelli, spicca la nomina a senatore a vita offertagli nel 1991 da Francesco Cossiga, presidente della Repubblica. Il giornalista non accettò però la proposta, a garanzia della sua completa indipendenza. Dichiarò:
E ancora:
Montanelli fu autore e uomo di cultura riconosciuto e premiato anche all'estero: nel 1992 fu il primo italiano ad essere nominato Comandante di I classe dell'Ordine del Leone di Finlandia (Suomen Leijonan I lk:n komentaja)[112][113][114][115], nel 1994 ricevette l'International Editor of the Year Award della World Press Review[116], e nel 1996 ebbe il Premio Principe delle Asturie[117]. Fra i personaggi di fama mondiale da lui intervistati, oltre ai già citati Henry Ford e Papa Giovanni XXIII, si possono ricordare Winston Churchill e Charles de Gaulle.
Degna di nota è la cena che Indro Montanelli ebbe nel 1986, in Vaticano, con Giovanni Paolo II:
Enzo Biagi ricordava il suo legame con il lettore: "Era il suo vero padrone. E quando vedeva lo strapotere di certi personaggi, si è sempre battuto cercando di rappresentare la voce di quelli che non potevano parlare"[119].
Il Comune di Milano ha intitolato al grande giornalista i Giardini Pubblici di Porta Venezia, divenuti «Giardini Pubblici Indro Montanelli». All'interno del parco è stata posta una statua raffigurante Montanelli intento nella stesura di un articolo con la celebre Lettera 22 sulle ginocchia.
La fondazione Montanelli Bassi ha istituito nel 2001 un premio di scrittura dedicato alla triplice figura di Montanelli, giornalista, storico e narratore, assegnato a cadenza biennale (la prima edizione si tenne nel 2003). Il premio, suddiviso nelle sezioni "Alla carriera" e "Giovani", prende in considerazione gli scritti nel settore del giornalismo, della divulgazione storica e della memorialistica[120].
Attività teatrale
Montanelli fu un grande estimatore e frequentatore del teatro e, in particolare, del teatro di varietà[121]. Da giovane, secondo la testimonianza di Gastone Geron, fece anche da comparsa nella compagnia di Nanda Primavera, durante alcune rappresentazioni dell'operetta Il Paese dei Campanelli[122]. Dal 1937 al 1965 scrisse una decina di commedie che furono messe in scena da vari teatri di Milano, Roma e Torino:
Nel 1959 collaborò con Federico Zardi e Vittorio Gassman alla stesura di testi per la trasmissione televisiva Il Mattatore[123].
Opere
Filmografia
Onorificenze
Note
Bibliografia
Voci correlate
Collegamenti esterni
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Ultimo aggiornamento Sabato 22 Dicembre 2012 14:11 |