Economia globale, meglio di settembre |
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Scritto da Sergio Guida |
Mercoledì 07 Gennaio 2015 10:18 |
La flessione del 2014, la terza annuale consecutiva, è statisticamente acquisita con i dati al terzo trimestre, ma “la dinamica positiva nei prossimi due anni verrà sostenuta principalmente da quattro fattori: la svalutazione del cambio dell’euro, che darà più slancio alle esportazioni italiane verso le economie al di fuori dell’Unione monetaria; il prezzo del petrolio molto più basso; il più forte incremento del commercio internazionale, grazie alla maggiore crescita USA in uno scenario di mitigazione delle tensioni geopolitiche; il miglioramento del credito per imprese e famiglie, in seguito alle misure espansive della BCE e al superamento della valutazione dei bilanci delle banche”.
Il costo del greggio è diminuito di oltre un terzo nell’arco di alcune settimane e per l’Italia è un guadagno di 14 miliardi annui. Le ricadute sono molto attenuate rispetto a 20-30 anni fa perché: l’incidenza dei consumi petroliferi sul PIL è nettamente calata; i tassi di interesse non hanno spazio per scendere; la dinamica dei prezzi al consumo sarà di nuovo spinta sottozero proprio dal ribasso della bolletta energetica, alimentando le aspettative di deflazione. “Il CSC ha tenuto conto di gran parte di queste modificazioni strutturali nelle stime sull’impatto della violenta caduta delle quotazioni del greggio; tuttavia, tale impatto rimane ampiamente positivo”. Il deprezzamento del cambio dell’euro dai valori medi del 2014 a quelli attuali reca vantaggi netti, per quanto mitigati dalla ‘multinazionalizzazione’ delle produzioni e il maggior dinamismo del commercio globale, rispetto a quanto ci si potesse attendere in settembre, apporta un ulteriore crescita per il 2015 e 2016. “La somma di queste forze non include i riflessi né dei minori tassi di interesse, che dai titoli pubblici si stanno trasferendo con più decisione al resto dell’economia, né delle misure propizie per la crescita contenute nella Legge di Stabilità”. La bilancia delle previsioni non ha, però, solo il piatto delle spinte ma ha anche quello dei freni. “Freni straordinari azionati dalla crisi, che abbiamo più volte elencato e che continueranno a operare nel prossimo futuro: l’alta disoccupazione che deprime redditi e fiducia delle famiglie, l’estrema selettività del credito, l’ampia capacità produttiva inutilizzata, il mercato immobiliare in aggiustamento, la perdita di competitività accumulata, i profitti delle imprese schiacciati tra aumento dei costi e calo del fatturato, la riduzione della leva del debito”. Il freno maggiore è determinato dai timori sulle prospettive della domanda e del reddito, a livello italiano, europeo e globale. Per esempio, “sono controproducenti per le aspettative degli operatori: il continuo dibattito sui poteri della BCE e sulle sue prossime azioni; la spada di Damocle dell’esame della Commissione europea sui conti pubblici italiani (benché sia utile sprone alle riforme); la prospettiva che scatti tra un anno la tagliola della clausola di salvaguardia introdotta dalla Legge di Stabilità; il dilemma circa eventuali elezioni anticipate che vengono talvolta evocate nel Paese; le fibrillazioni suscitate dall’esito del voto per il nuovo Presidente greco”. L’ interdipendenza internazionale, accentuata dall’aver messo in comune la sovranità monetaria, ci espone al contagio dei destini perfino della piccola economia della Grecia e ci induce a interessarci dei suoi meccanismi democratici, tanto che, come già alla fine del 2008, il più grande rischio è proprio quello politico, che si presenterà con le varie scadenze elettorali durante i prossimi due anni. D’altronde, se “l’unico collante dell’Area euro percepito dai cittadini, per l’incapacità dei politici di propagandare i genuini e numerosi vantaggi, è il costo del dissolvimento, allora l’equilibrio su cui si regge è intrinsecamente precario. Senza coordinamento e cooperazione per un progetto di crescita, che non può essere basato solo sulla regola del ‘vince il più forte’ o su quella del ‘ciascuno faccia i compiti a casa’, entrambe miopi dal punto di vista macroeconomico, questa precarietà condannerà l’UEM a bassa crescita e alta disoccupazione. Ingredienti divisivi”. Serve invece il rilancio della domanda attraverso un consistente programma di investimenti pubblici, ma secondo il CSC “da questo punto di vista il piano Juncker non è adeguato per la limitatezza delle risorse e il modo in cui è congegnato”. Tuttavia, “anche scontando la cappa dell’incertezza, i freni straordinari e le loro conseguenze sulle decisioni di spesa di consumatori e imprese, gli stimoli esterni sono talmente potenti da vincere le resistenze, sollevare almeno un po’ la barca dell’economia italiana e rimetterla in navigazione”. Il CSC, dunque, incorpora nelle previsioni per l’Italia solo una parte dei benefici del cambiato scenario internazionale, ora costituito da una più vivace crescita della domanda mondiale (+4,4% nel 2015, dal +4,0% di tre mesi fa, +4,5% nel 2016), dal petrolio più a buon mercato (70 dollari a barile, contro i 104 indicati a settembre e una quotazione corrente che sta avvicinandosi ai 60), dall’euro meno forte (fissato a 1,25, dall’1,30 precedente, e probabilmente scenderà ancora). Il consolidamento dei conti pubblici proseguirà. L’aggiustamento è assolutamente indispensabile, dati il livello raggiunto dal debito e la necessità di rassicurare gli investitori sulla sostenibilità di quest’ultimo. A questo proposito, viene comunque ricordato che “l’Italia ha fatto grandi sacrifici in questi anni, sintetizzati dalla diminuzione del 12,3% del reddito pro-capite, ossia oltre 3.700 euro per abitante (prezzi 2014), che è così arretrato ai livelli del 1997”. In considerazione di questo quadro il CSC proietta un andamento del disavanzo pubblico che nel 2015 è in linea con quello programmato dal Governo (con il deficit che scende al 2,7%), ma che nel 2016 se ne discosta perché non include l’entrata in vigore della clausola di salvaguardia inserita nella Legge di Stabilità (12,8 miliardi di incrementi di imposte indirette, 0,8% del PIL). Poiché quest’ultima farebbe ricadere l’economia in recessione, per il CSC evitarla è assolutamente necessario onde “stabilizzare il Paese sul ritrovato percorso di crescita”. Per riportare in modo strutturale l’Italia a ritmi di sviluppo ben più elevati degli attuali è però “cruciale diminuire drasticamente la corruzione, che è la punta dell’iceberg dell’illegalità diffusa e della mancanza di rispetto delle regole. La corruzione riduce gli investimenti privati e l’efficienza della spesa pubblica, peggiora la qualità delle istituzioni e del capitale umano. È quindi un vero freno per il progresso economico e civile”. Il CSC ha quantificato i suoi effetti sul PIL utilizzando l’indice Control of Corruption della Banca Mondiale: “in linea con i risultati della letteratura, un aumento dell’indice di un punto è correlato, in modo statisticamente significativo, con una diminuzione del tasso di crescita annuo del PIL procapite di 0,8 punti percentuali. Interpretando questa correlazione come nesso causale, potremmo concludere che, se l’Italia riuscisse a ridurre la corruzione ai livelli della Spagna, obiettivo non certo impossibile visto che la distanza è di 0,7 punti, il suo tasso di crescita annuo aumenterebbe di 0,6 punti percentuali”. Per cambiare il quadro è necessario comprendere le cause dell’elevata corruzione italiana: anzitutto, l’ordinamento giuridico, che fino a tempi recentissimi ha trascurato la prevenzione e continua a mostrare diverse carenze dal lato della repressione, peraltro con un “limite storico di non avere mai attivato meccanismi di tutela dei dipendenti che denunciano episodi di corruzione”. Dal lato della repressione, due punti sono particolarmente critici: l’attuale disciplina della prescrizione (cui ora il Governo sta cercando di mettere mano) e l’inefficace contrasto di ‘reati sentinella’ come il falso in bilancio e l’autoriciclaggio (diventato sanzionabile appena pochi giorni fa). “Un secondo insieme di questioni, almeno di pari importanza, riguarda l’inefficienza della burocrazia. Secondo il rapporto Doing Business della Banca Mondiale, in Italia è particolarmente difficile risolvere per vie legali controversie commerciali, ottenere permessi per costruire e adempiere ai doveri fiscali. Gli ostacoli in attività così importanti per l’attività economica aumentano i vantaggi dello scambio corrotto e quindi la sua diffusione”. È possibile “contrastare e ridurre notevolmente la corruzione, smentendo il pessimismo di chi crede che tale lotta sia persa in partenza, con una strategia basata su più azioni. Il primo passo è quello di adeguare il sistema penale agli standard internazionali, rivedendo la disciplina del falso in bilancio e verificando l’efficacia del reato di autoriciclaggio appena introdotto, senza cadere in controproducenti eccessi. Un approccio legislativo equilibrato deve comunque contemperare l’esigenza di far emergere gli illeciti con quella di evitare un ricorso sproporzionato alla sanzione penale”. La battaglia più importante si gioca però sul lato della prevenzione, per la quale “non è rinviabile una tutela più ampia dei ‘whistleblower’, cittadini o funzionari pubblici che decidono di denunciare o riferire alle autorità giudiziarie particolari importanti per svelare la corruzione”. Infine, una leva importante sono le politiche per la concorrenza, soprattutto in un settore delicato come quello degli appalti: in questo senso, “sono da incoraggiare e sviluppare le iniziative dell’Autorità garante della concorrenza come il ‘Vademecum’, che sollecita le stazioni appaltanti a segnalare i casi sospetti, e il rating di legalità, che viene assegnato dalla stessa Autorità alle imprese che rispettano standard più elevati di quelli imposti per legge”. Il valore aggiunto del rating per il soggetto che lo ottiene consiste nella possibilità di godere di migliori condizioni di accesso al credito bancario e ai finanziamenti pubblici. “Si tratta, quindi, di un riconoscimento concreto a fronte dell’impegno delle imprese che dimostrino di operare sul mercato secondo principi di trasparenza e correttezza più rigorosi degli standard ordinari”. In particolare, vengono valorizzate l’adesione a codici etici di autoregolamentazione adottati dalle associazioni di categoria e/o a forme di ‘Corporate Social Responsability’, nonché l’adozione di modelli organizzativi ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001, riguardo alla responsabilità amministrativa di enti e società.
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