Fabrizio Carafa e Maria d'Avalos: cronaca di una tragedia d’amore |
Scritto da Antonella Orefice |
Giovedì 14 Aprile 2011 23:42 |
Nella piazza San Domenico Maggiore in Napoli, in cui sorge il celebre palazzo di Raimondo Sangro dei Principi di Sansevero, dal 1590 l’urlo agghiacciante della splendida e sfortunata Maria d’Avalos, per secoli ha raggelato il quartiere. Da allora, nelle notti senza luna, la sua ombra evanescente pare riapparire muta, aggirandosi silenziosa, dolente, e l’incidere spettrale sembra riecheggiare i versi ispirati al Tasso dalla sua tragica vicenda: Piangete, o Grazie, e voi piangete, o Amori! La bella e irrequieta Maria. La tragica fine di Maria D’Avalos, detta la più bella signora di Napoli, e del cavaliere Fabrizio Carafa dei duchi di Andria, uomo di rara bellezza ed incontrastato valore, amanti forse consapevoli di andare incontro ad un destino già scritto, ha innescato nella storia una fiammeggiante potenza immaginativa che li ha resi immortali. Era 17 ottobre 1590 quando Maria e Fabrizio, in una delle stanze del palazzo S. Severo, rinnovavano l’eterno incantesimo dell’amore. Erano giovani, belli, innamorati. Erano felici, tra quelle mura discrete che celavano agli occhi del mondo l’estasi e la paura di una relazione adultera. Il desiderio, colpevole per quanti non conoscano le tempeste dei sentimenti, li aveva vinti, dimentichi degli obblighi, dimentichi di un marito: Carlo Gesualdo, principe di Venosa, legittimo consorte di Maria. Un uomo troppo orgoglioso per tollerare l’onta di un tradimento, troppo innamorato per invocare la giustizia della legge. A Napoli tutti erano a conoscenza della tresca tra la bella Maria e Fabrizio Carafa. La nobiltà sussurrava, il popolo commentava, con divertita indulgenza l’audacia dei clandestini amati. La passione tra i due cresceva ogni giorno di piu’, e presto anche la prudenza venne messa da parte. Fabrizio e Maria si amavano, contro tutto, malgrado tutto. Don Carlo per qualche tempo non vide o non volle vedere quel che gli succedeva intorno. Scriveva d’amore pensando alla sua donna, le dedicava malinconiche melodie, e chiudeva gli occhi su una verità troppo dura da accettare. Col tempo i mormorii della città si erano trasformati in un coro indignato: tutti vedevano, tutti sapevano, tutti parlavano. Solo Carlo continuava a starsene chiuso nel suo silenzio, meditando la tragedia. Finchè un giorno, informato in ogni particolare della relazione tra Maria e Fabrizio da un “premuroso” amico, pazzo di dolore e di gelosia, finse di partire per poi ritornare a notte fonda, forse nella segreta speranza di trovare, sola e casta, la donna che amava.
Ma spalancata la porta di casa, ogni illusione si infranse miseramente contro l’immagine dei due amanti perdutamente avvinti. L’ira e la disperazione, troppo a lungo represse, esplosero ferocemente. Si gettò su di loro brandendo un pugnale e li colpì ripetute volte, accecato dall’odio e dalla passione, fino ad ucciderli. Consumato l’atroce delitto, pazzo di dolore, sporco di sangue, Carlo camminò poi per ore lungo le vie del centro, piangendo disperato e fuggendo poi via. Quando il giorno dopo i Regi Consiglieri ed i Giudici Criminali della Gran Corte della Vicaria entrarono nella stanza trovarono Fabrizio Carafa morto a tre passi dal letto nel quale, insanguinato, c’era il cadavere di Maria. I corpi dei miseri amanti furono esposti la mattinata seguente in mezzo alle scale e tutta la città corse a vederli.
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