de Fonseca Pimentel Eleonora |
Martedì 09 Ottobre 2012 13:50 |
Eleonora de Fonseca Pimentel (Roma, 13 gennaio 1752 – Napoli, 20 agosto 1799) è stata una delle figure più rilevanti della breve esperienza della Repubblica Napoletana del 1799 e una delle donne più intelligenti, attive e colte del XVIII secolo. Il suo nome completo, in italiano, era Eleonora Anna Maria Felice de Fonseca Pimentel (originariamente, Leonor da Fonseca Pimentel Chaves). Era conosciuta anche come Pimentel Fonseca o Pimentella. Era di famiglia portoghese ma era nata a Roma. Poco dopo la sua nascita la sua famiglia si trasferì da Roma a Napoli. Intellettualmente molto precoce, si dedicò allo studio delle scienze e delle lettere. Studiò il greco il latino e altre lingue straniere, mineralogia (con Melchiorre Delfico), matematica e chimica . Coltivò altresì con passione le discipline sociali, in particolare il diritto pubblico e l’economia. Si cimentò nella composizione di versi (sonetti, cantate, epitalami). Ancora molto giovane fu ammessa all’Accademia dei Filaleti (amici della verità) con il nome di Epolnifenora Olcesamante. All’Accademia fu presentata dal duca di Belforte che Eleonora aveva conosciuto frequentando il salotto e la biblioteca di Don Francesco Vargas Macciucca, uno dei più illustri giureconsulti e letterati del tempo. Nel 1768 fu ammessa all’Accademia dell’Arcadia con il nome di Altidora Esperetusa dove sicuramente conobbe Antonio Jerocades, letterato calabrese affiliato alla massoneria. Sempre nel 1768, per il matrimonio di Ferdinando IV con Maria Carolina d’Asburgo, Eleonora compose l’epitalamio Il tempio della gloria , un ponderoso poema per cantare le glorie delle due dinastie: gli Asburgo e i Borbone. Eleonora in questo periodo frequentò anche Ferdinando Galiani, importante economista e letterato. Intanto le prime opere le avevano guadagnato l’attenzione e l’ammirazione del Metastasio con il quale intratteneva una corrispondenza epistolare. Nel 1775 scrisse il componimento drammatico la Nascita di Orfeo in onore del neonato principe ereditario Carlo. Conquistò l’ammirazione della Regina che la volle nella sua corte come bibliotecaria. La nuova posizione le permise di conoscere e frequentare i maggiori esponenti dell’Illuminismo napoletano e non solo napoletano, a quel tempo molto apprezzati a corte; parecchi di loro erano affiliati alla massoneria, ma la regina in quel tempo li teneva sotto la sua protezione. Iniziò anche una corrispondenza con Voltaire, che le dedicò un sonetto. Nel 1777 Eleonora pubblicò il Trionfo della virtù, componimento drammatico dedicato al primo ministro del Portogallo, Pombal, che era stato vittima di un attentato. Nel 1778 sposò Pasquale Tria de Solis, capitano dell’esercito napoletano, da cui ebbe un figlio, Francesco, che morì in tenera età. Un anno dopo la morte del figlio, nel 1779, pubblicò i Sonetti in morte del suo unico figlio e l’Ode elegiaca per un aborto, nel quale fu maestrevolmente assistita da Mr. Pean. Scrisse nel 1780 un Sonetto per la solenne apertura della regia Accademia delle scienze e belle lettere di Napoli, e nel 1782 pubblicò la cantata La gioia d’Italia, scritta per il granduca e la granduchessa delle Russie, in visita a Napoli. Nel 1786 si separò dal marito, le cui percosse le avevano causato l’interruzione di una seconda gravidanza. Trovandosi in ristrettezze economiche chiese un sussidio alla Corte, e re Ferdinando lo concesse. In quella occasione scrisse per il reali la cantata Il vero omaggio. Nel 1790 Eleonora de Fonseca Pimentel iniziò la traduzione dal latino e il commento del saggio di Nicolò Caravita: Niun diritto compete al Sommo Pontefice sul Regno di Napoli. L’opera originale era stata messa all’indice dal Sant’Uffizio nel 1710. La separazione fra Stato e Chiesa era un tema che interessava molto gli illuministi napoletani come Filangieri, Delfico, Pagano, Genovesi e soprattutto Pietro Giannone, al quale la Pimentel fa riferimento. Questi, per la sua opera Dell’istoria civile del regno di Napoli, aveva avuto numerosi problemi con la Chiesa al punto da essere costretto a rifugiarsi a Vienna sotto la protezione della corte asburgica. Più tardi a Ginevra Giannone compose un altro lavoro dal forte sapore anticlericale Il Triregno. Del regno terreno, Del regno celeste, Del regno papale che gli costò nuovamente la persecuzione delle alte sfere ecclesiastiche culminate con la sua cattura nel 1736 in un villaggio della Savoia. Giannone morì nel 1748 a Torino in una prigione sabauda. In quel momento l’opera tradotta dalla Pimentel risultava gradita anche al re e alla corte, essendo ancora in corso un contenzioso con la Santa Sede per la questione della Chinea, il tributo che il re di Napoli doveva pagare allo Stato Pontificio per i diritti feudali che il Pontefice deteneva sul regno di Napoli e che dal 1788 Ferdinando IV di Borbone considerava abolito. I buoni rapporti tra gli intellettuali illuministi napoletani e la corte borbonica si interruppero quando dalla Francia cominciarono ad arrivare le notizie più drammatiche sulla rivoluzione. I sovrani napoletani appresero con viva preoccupazione la notizia dell’imprigionamento di Maria Antonietta, sorella della regina Maria Carolina e con grande raccapriccio quella della sua esecuzione. La regina illuminata che aveva mantenuto una linea progressista anche durante la prima fase della Rivoluzione, si sentì tradita e minacciata dai vecchi amici che ora propugnavano l’avvento della repubblica e li combatté inflessibilmente anche con il ricorso ad una rete di spie. Eleonora venne licenziata dalla biblioteca e successivamente le fu revocato il sussidio. Fu arrestata e condotta al carcere della Vicaria il 5 ottobre 1798 con l’accusa di leggere libri proibiti e di tenere in casa propria riunioni sediziose. Dal carcere tentò di scrivere all’incaricato consolare portoghese ma l’inquisitore, Guidobaldi, intercettò la corrispondenza che fu considerata come prova della sua colpevolezza. Il 23 dicembre 1798 l’esercito francese entrava a Roma, comandato dal generale Championnet. La famiglia reale lasciava Napoli a bordo del “Vanguard” di Horatio Nelson e fuggiva a Palermo il 21 dicembre.
I lazzari assaltarono la Vicaria, e probabilmente Eleonora fu liberata in quell’occasione, insieme con le altre detenute provenienti dai “bassi” napoletani, con le quali aveva fraternizzato. Il 20 gennaio 1799 si trovò alla testa di altre patriote, nell’azione di conquista del Forte di Sant’Elmo. Erano prevalentemente donne delle classi medie, mogli dei giacobini magistrati, giudici, avvocati, ma anche aristocratiche progressiste. La bandiera tricolore venne issata sul forte, per segnalare al generale Championnet che la via era libera. Poi vi fu una grande festa, il famoso “Ballo dei francesi alla Certosa di San Martino” durante il quale Eleonora recitò l’Inno alla libertà scritto durante la detenzione del quale non si conosce il testo perché è andato perduto. Due giorni dopo i patrioti piantarono l’albero della libertà e dichiararono decaduta la dinastia borbonica, proclamando la Repubblica Napoletana “sotto la protezione della grande nazione francese”. Eleonora divenne una protagonista di primo piano della vita politica della Repubblica. Partecipò alla formazione del Comitato centrale che favorì l’entrata dei francesi a Napoli e in seguito diresse il giornale ufficiale della Repubblica Napoletana, il Monitore Napoletano, che si pubblicò dal 2 febbraio all’8 giugno 1799, in 35 numeri bisettimanali. Dai suoi articoli emerge un atteggiamento democratico ed egualitario, volto soprattutto a diffondere nel popolo gli ideali repubblicani, attività nella quale la Pimentel si impegnava attivamente anche della Sala d’Istruzione Pubblica. La casa sua era il convegno dei repubblicani più dotti e generosi. In realtà, Eleonora non poteva avere una reale conoscenza delle condizioni delle classi inferiori, e i suoi tentativi di rendere popolare il nuovo regime, anche con l’uso del dialetto nei suoi scritti, ebbero scarso successo; l’unico effetto palese fu quello di acuire il malanimo dei Borbone nei suoi confronti. Così si rivolgeva ai ceti più umili nel N. 11 del Monitore: «Qual biasimevole contrasto opponete ora Voi a’ vostri avoli de’ tempi del gran Masaniello! Senza tanto lume di dottrine e di esempj, quanti ora ne avete, diè Napoli le mosse, proseguirono i vosti avoli, insorsero da per tutto contra il dispotismo, gridarono la Repubblica, tentarono stabilir la democrazia, e per solo ragionevole istinto reclamarono i diritti dell’Uomo. Ora proclamano l’uguaglianza, e la democrazia i nobili, la sdegnano le popolazioni!» Quando cadde la Repubblica, Eleonora Fonseca, come gli altri rivoluzionari, poté sperare nella possibilità dell’esilio, espressamente previsto nella capitolazione, ma l’Ammiraglio Horatio Nelson non permise che gli accordi venissero onorati: Eleonora si era già imbarcata su una nave in partenza per la Francia, quando fu prelevata e di nuovo condotta alla Vicaria. Processata, fu riconosciuta colpevole e infine impiccata sulla piazza del Mercato il 20 agosto 1799. Inutilmente aveva chiesto il privilegio di essere decapitata in quanto nobile: le fu risposto che questo privilegio era riconosciuto alla sola nobiltà napoletana e lei non era napoletana.
Affrontò la morte con una indifferenza eguale al suo coraggio. Si racconta che prima di avviarsi al patibolo volle bere il caffè, e le sue ultime parole furono : “Forsan et haec olim meminisse juvabit” ovvero: “Forse un giorno la memoria di questi avvenimenti ci sarà gradita” (Virgilio, Eneide). Eleonora de Fonseca Pimentel portata al Patibolo
Prima della sepoltura, il cadavere venne lasciato penzolare dalla forca per una intera giornata, privo di mutande, offerto al pubblico ludibrio. Qualcuno volle scrivere contro di lei anche questi ignobili versi: ‘A signora ‘onna Lionora che cantava ‘ncopp’ ‘o triato, mo’ abballa mmiez’ ‘o Mercato. Viva ‘o papa santo ch’ha mannato ‘e cannuncine pe’ caccià li giacubine. Viva ‘a forca ‘e Mastu Dunato! Sant’Antonio sia priato! Benedetto Croce ad Eleonora Pimentel dedicò una monografia apprezzando più la giornalista che la poetessa. Ecco un suo giudizio sul Monitore: “ Non distrazioni, non discorsi di letteratura o astratte discettazioni. Il Monitore va rapido e diritto, tutto assorto nelle questioni essenziali ed esistenziali che si affollarono in quei pochi mesi, i quali per intensità di vita valsero parecchi anni. E in esso ritroviamo le fuggevoli gioie, le ansie sempre rinnovate, i propositi e le aspettazioni dei patrioti napoletani, espressi con la parola della loro virile compagna, con la forma e il colorito individuale che prendevano nell’animo di lei”. La sua casa, in Salita Sant'Anna di Palazzo, 29, una traversa di Via Chiaia, proprio di fronte la famosa pizzeria Brandi dove, nel 1889, nacque la Pizza Margherita, fu la sede del Monitore Napoletano. Nel 1999 il Comune di Napoli, in un periodo di ripacificazione con la Storia appose una targa. Di seguito vi sono riportate le fotografie:
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Concludiamo con una parte suo editoriale nel numero 23 del Monitore: «Il primo indizio d’interna virtù, indizio, che si trasforma in arra de’ futuri destini di un Popolo, è, che a misura della difficoltà delle circostanze, cresca l’attività, ed il coraggio, negl’individui. Così l’uomo si avvezza a trarre partito da tutte le sue facoltà, e co’ mezzi, che procrea a se stesso si rende superiore alle circostanze, e padroneggia gli eventi. Noi cominciamo felicemente a dar quest’indizi. Destituiti, per le passate vicende, d’ogni mezzo, cominciamo a crearli; l’ardore e l’attività cresce ogni giorno ne’ patrioti, ed ogni giorno decresce, in questo minuto popolo, la prima ritrosia, o apatia, pel nuovo sistema. Le sparse insurgenze, se affliggono, danno motivo a’ buoni di riconcentrar le loro azioni, ed esercita la vigilanza di tutti sulla pubblica bisogna». |
Ultimo aggiornamento Mercoledì 10 Ottobre 2012 11:09 |