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Scritto da Alessandra Giannetti  
Martedì 19 Luglio 2011 21:58

L’immunità penale, che come sappiamo è personale, si concretizzava in una “patente” concessa in prevalenza dai Nunzi Pontifici, dagli Arcivescovi e dai Vescovi, che conferiva ai “patentati” la dispensa dal Foro.

In conseguenza di ciò se i patentati si macchiavano di delitti, venivano giudicati da giurie composte da ecclesiastici e ricevevano un trattamento particolare rispetto ai delinquenti comuni.

Essi venivano infatti accolti nelle carceri ecclesiastiche, molto meno gravose di quelle laiche.

I privilegi non si fermavano qui.

I patentati erano favoriti anche dal diritto di asilo e dalla esenzione fiscale.

La mancanza di freni esemplarmente punitivi portò naturalmente un aumento a dismisura di furti e omicidi commessi da questi ultimi.

Considerato che le patenti erano concesse non solo da Nunzi, Arcivescovi e Vescovi, i quali ne avevano fatto una vera e propria merce di scambio, ma anche da semplici Preti e Sacerdoti del Culto, si comprende il proliferare di questi benefici a buon mercato.

Tanto più che le dispense dal Foro erano concesse non solo ai chierici, ma anche al personale laico non stipendiato, come per esempio gli esattori delle entrate ecclesiastiche, e perfino ai laici che non avevano rapporti diretti con la Chiesa, ad eccezione dei vincoli spirituali.

Tutti costoro formavano il seguito armato della Chiesa, e vien da pensare che la Chiesa stessa abbia mercificato le dispense penali per fare proselitismo.

A sostegno di tali abusi, il potere ecclesiastico sosteneva il suo antico diritto di estendere i privilegi dai prelati ai loro servitori laici, mentre la Real camera di S. Chiara replicava: “non si trova fatta menzione di famiglia armata di ecclesiastici appresso gli autori antichi, ma questa (fu) introdotta ai tempi di Clemente V e di Giovanni XXII per li soli inquisitori e con clausole assai limitate”.

Molte ragioni, secondo la Real Camera di S. Chiara, erano addotte dagli autori antichi per comprovare questa affermazione, prima tra tutte quella di non lasciare libero sfogo all’arbitrio dei Vescovi e dei prelati, aprendo la porta a scandali e delitti che sarebbero rimasti impuniti.

La Camera elencava così, per dimostrare la prassi secondo il diritto statale, una serie di scandali accaduti sotto il regno di Filippo II, III e IV, e di Carlo II, in cui i vescovi e i loro familiari erano stati esemplarmente puniti: “e qualora alcun familiare dè Prelati abbia commesso delitto da potersi condonare, vi è stato bisogno di grazia per renderli esenti dalle pene, qual grazia han dovuto chiederla li stessi Prelati con loro lettera, e con memoriali, che son rimasti notati, e registrati per cautela (…) e qualora per condescendenza, o per debolezza alcun R. Ministro ha tralasciato di osservare esattamente tali disposizioni, trovasi scritto che ne sia stato dai Vicerè e Consiglio Collaterale ripreso, e corretto”.

A tal proposito la Real Camera di S. Chiara autorizzò un ordine circolare tramite il Commissario di Campagna, col quale veniva proibita la concessione delle patenti d’armi, senza il preventivo informo al Re.

Il numero dei capocaccia veniva ridotto da duecentottanta a duecentotrenta; per quanto riguardava i soldati del battaglione l’uso delle armi veniva controllato dall’Uditore generale, “secondo la mente della Prammatica 22 de militi”.

Ma ciò nonostante, si arrivò al punto che le patenti erano rilasciate anche dai laici, anche se quelle ecclesiastiche erano molto più ambite perché includevano la “franchigia fiscale” .

Di questa franchigia se ne servivano particolarmente i benestanti i quali, per non sopportare un eccessivo peso fiscale, facevano chierici tutti i loro figli, e coloro che non volevano diventare chierici, acquisivano la qualità di “chierico selvaggio”.

La consuetudine dei chierici selvaggi veniva fatta risalire dalla Chiesa ad un decreto di Gregorio XV il quale ne fissava i requisiti.

In realtà tale decreto gregoriano non aveva mai ottenuto il regio exequatur.

(Da  “PATENTATI ECCLESIASTICI.  Il conflitto tra lo Stato e la Chiesa nella storia del diritto del Regno di Napoli nel settecento” di Alessandra Giannetti)

 

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